"Kostantinos Kavafis"
Metus Hostilis, una rubrica per l’integrazione o per la divulgazione letteraria?
Si parla, oggi più di ieri, del fenomeno migratorio che vede l’umano orientale varcare i labili confini europei. Si parla di invasione, e lo si fa comparando culture apparentemente estranee tra loro; fa sfondo, quindi, una percezione vulgata di conflitto culturale a cui la Sileiana già accenna nella pubblicazione del 22 Febbraio “Serenissimi Incontri”. Vi è alla base di tali discorsi l’idea che l’umano, nella sua molteplice forma, sia inconciliabilmente e conflittualmente costretto ad una sezione geografica che gli compete; una vera e propria ghettizzazione del sistema culturale di provenienza. La convivenza diventa cosa ardua, e se i problemi di tale convivenza, forse, derivano principalmente da una crisi più profonda del cozzare apparente tra religioni e culture è invece convinzione comune che il principale problema di questa sia l’impossibile condivisione di modelli sociali tra loro differenti.
Un problema necessita di realtà evidenti e la summa di tutti i travagli che la mia e le prossime generazioni vivranno vuol essere attribuita all’estraneo, l’immigrato. Tale è la volontà di una risoluzione a mo’ di panacea del quieto vivere che il grande totem, il feticcio verso cui facciamo vertere tutti i problemi del contemporaneo sia l’immigrato. Il migrante s’estranea dal vivere, costantemente disumanizzato dai media e dalla chiacchera del giorno; vi si sviluppa, invero tutta una sovrastruttura di neologismi ed analisi di problematiche mai sperimentate prima. Diventa un parassita a carico dello stato nel 2016, una merce da carico nel 2018 con gli scafisti e negli anni che videro il ventennio berlusconiano vennero presentati come gli attrezzi parlanti di Varrone, macchine utili a pagare i contributi, manodopera necessaria a ricoprire quei ruoli che le nuove generazioni d’italiani non più volevano ricoprire. In un modo o nell’altro s’è molto radicata nel tempo l’idea che il diverso fosse tale non per una questione culturale, forse genetica.
In una società in cui il Cristo è caucasico ed in cui i grandi mori dell’Urbe laziale subiscono l’iconoclastia del tempo, l’idea che qualcuno di diverso da noi possa apportare valori umani, grandi speculazioni e modelli di vita, è pressoché impensabile. Fortunatamente così non è. Oggi chi si occupa di immigrazione e di integrazione sposta tutto il focus della questione sulle tensioni, sulle tremende storie che accompagnano il migrante, sui dolori di esseri umani. Eppure, sebbene sia sacrosanta la narrazione del dolore, non è ciò, a parer mio, quanto la società di oggi dovrebbe osservare. S’è vera la lezione “Homo sum, humani nihil a me alienum puto”, com’è vero che spesso e volentieri la memoria omette quel cognomen “Afro” davanti al nome di Publio Terenzio, sarà altresi vero che le piccole biblioteche dei contemporanei europei, colme di classici appena masticati e testi di psicanalisi mal compresi, faranno gran peccato a privarsi di tesi e tomi dell’altro Mediterraneo.
“Metus Hostilis” si pone l’ambizioso obiettivo di creare una piccola selezione bibliografica al fine di ampliare il pubblico di lettori di quei bei nomi di cui spesso le nostre biblioteche non godono. Si pone l’obiettivo di avvicinare culture diverse attraverso il media preferito dal bibliofilo. Ma quanto c’è di vero nelle affermazioni dell’Afro? L’essere umano è realmente capace di assimilare quelle tendenze sì umane ma di diversa matrice? Ebbene ammetto che la penna che verga la suddetta rubrica sia mossa dal disgustoso spirito positivista che vorrebbe veder un giorno una realtà letteraria condivisa ben più ampia di quella in cui, a suo tempo, trovò nelle aule di scuola. Ebbene, se posso, in fase finale, esprimere un breve giudizio sugli esiti di questo arido lavoro, sento di poter spendere due parole sulla virtù/anti-virtù che il lettore contemporaneo di cui dovrebbe dotarsi quando si tratta di approcciarsi “all’altro”, al “diverso”: il tanto odiato “gusto”. Non sia l’esotico motivo di vanto. Non sia il diverso motivo d’interesse arbitrario. Molto spesso m’è stato chiesto di considerare con orecchio più accorto o con occhio più interessato delle disastrose espressioni artistiche, osannate in virtù dell’animo straniero del proprio “Efesto”. Ebbene, l’essere umano ha sempre teso alla speculazione artistica, sia nella produzione, sia nella analisi. Il Gusto, come insegnano i selettori del Canone, è l’unico metro di paragone. Siate critici nella lettura come io lo sono stato nella selezione; non è perché uno scritto, un progetto o un pensiero, proviene da una storia che in noi susciti sentimento che dunque andrà considerato per il capolavoro che non è.
Il primo lume del Mediterraneo, Kostantinos Kavafis.
Inizia questo incontro mensile con uno dei padri della poesia greca moderna e contemporanea. Un poeta atipico, una mosca bianca per molti versi, nella tradizione millenaria della poetica egea. Kostantinos Kavafis, il primo lume nel tour mediterraneo della rubrica. Studioso, poeta e uomo; un’anima laconica che vive un’esistenza cristallizzata nel tempo, somigliante al gusto leopardiano per il rapporto contrastante tra realtà vissuta e tempo d’appartenenza, ma che nella realizzazione oltrepassa la barriera dell’intenzione e vive appieno il sogno d’una realtà slegata dal presente. Un poeta esule, un greco istruito in Inghilterra che vede propria l’appartenenza ad Alessandria d’Egitto, la stessa Alessandria di cui parla Zennaro in "La rivoluzione scientifica dimenticata" del 21 Marzo. Un poeta che non rinnega, ma anzi esplicita, le proprie inclinazioni, ma che queste non vive appieno a causa di una complessa visione dell’eros dell’essere umano. Un poeta “storico”, come lui stesso confesserà in vecchiaia; un poeta anziano, sia per le inconsuete tempistiche di pubblicazione che vedranno impegnargli solo il tempo della terza età, sia per i temi, aderenti ad un moralismo assoluto, sciolto, da implicazioni religiose a noi vicine e ad una visione estrema della condizione umana, condizione contesa tra l’edonismo della carne e la vergogna della dissolutezza che diventa, in un gioco di mancanze morali, la moralità stessa. Un poeta statico, impegnato a dipingere exempla storiche nella loro irremovibile psicologia, nomi del passato che nella loro statuaria essenza rappresentano antonomasie fisse nel tempo e nello spazio dell’anima, il ricordo. È l’assenza di luce il filo rosso che lega le brevi liriche di Kavafis, ombrose sono le stanze della biblioteca alessandrina, buie sono le immagini crepuscolari su cui il sipario dei suoi soggetti va calando. Talvolta è il ricordo il focus dell’azione, contornato dal collasso della propria impresa, a volte invece è la predizione di un destino infausto, incombenti fortunali della vita. La vita, nella sua grande complessità, pone davanti all’erudito molteplici questioni di grande spessore e di grandissimo impegno intellettuale. Da un lato abbiamo uno studioso, un grande esperto di quel mondo crepuscolare fatto di nomi dati ed eventi; morigerato, statico, laconico. Dall’altro i fabbri che forgiarono il nostro presente, dinamici, pragmatici. Da un lato abbiamo il desiderio, la pulsione della carne, le volontà vacue del godereccio; dall’altro l’ironia, la consapevolezza dell’atto fine a sé stesso, il rifiuto temporaneo per il “momentaneo”. Alla base la convinzione che ogni uomo sia nulla più che un peccatore, un peccatore della bellezza innaturale dell’intelletto.
Nato ad Alessandria il ventotto Aprile 1863, Kostantinos prende il proprio cognome dal padre Petros, originario delle coste orientali dell’Egeo. La madre, forse la figura più ingombrante e di maggior rilievo nello spettro affettivo del poeta, era di graziosi natali bizantini. Il legame con la terra del mito è, e sarà, proprio quella linea di sangue materna che tanto consolerà il poeta nel travaglio del viaggio. Il giovane Kostantinos, infatti, a partire dai primi anni di vita, costretta la famiglia dalle necessità del soldo, si mosse a Liverpool, in Inghilterra, dove condusse i suoi primi studi, dai sette ai ventidue anni; solo dopo un breve soggiorno a Costantinopoli, troverà poi pace ad Alessandria. La vita di Kostantinos continua placida nell’apparenza ma strutta nella sostanza. Mentre navigava di carica in carica presso quelle amministrazioni statali che ne nutrivano il corpo, l’anima si straziava, sensibile di quei contrasti della psiche, tesa tra l’incertezza del domani, la particolare percezione del tempo e dello spazio e il complesso rapporto con l’eros; rapporto fatto di implosione del desiderio.
Da un’innegabile punto di vista, la via di Kavafis, condotta per lo più tra le polverose banchine di tomi della biblioteca alessandrina, fu condotta nel totale interesse dell’erudizione intima; nel particolare, l’erudizione classica. È questa attitudine allo studio, questo desiderio tanto più necessario che accessorio, che lo portò, alla fine, ad una complessa visione del presente, le cui degenerazioni confluiranno poi in una visione erotica conflittuale. Da un lato la brulicante Alessandria, suq pieni di vita, un crocevia di culture ed esperienze, dall’altro il topo di biblioteca. Basterebbe questo contrasto per capacitarsi dell’eccentricità dell’autore nel tessuto sociale in cui si cala. Kavafis vive la dimensione cristallizzata di una delle capitali internazionali più vivaci del tempo, una dimensione che lo porta ad uno straniamento totale, da lui forzato “I muri”. Una vita, un’esistenza, che esclude il divenire di cui si compone la successione storica, ma che mesce in una crasi temporale il passato, il presente in quanto tale ed un futuro certo fatto di inevitabile entropia. Da qui, dalla certezza del temine ultimo dell’esistenza nasce l’angoscia per l’incognita futura. Da questa considerazione della natura dell’esistenza umana nello spazio e nel tempo ne nascono di secondarie e derivate.
La prima naturale conseguenza di questa forma mentis è quella relativa alla considerazione della storia. Tale è il bisogno di un’ancora di certezza che il passato diventa una risorsa impossibile da ignorare. Il ricordo diventa un bene importante, sia che esso appartenga alla vita del poeta, che sia esso parte della tradizione classica. Come un minatore cerca con avidità l’oro in una miniera, Kavafis andava radunando notizie e descrizioni delle vite e della storia delle antiche personalità della Persia Media, della Roma imperiale e della Grecia classica. Come feticci reliquari, l’estensione di questa memoria tesaurizzata andava anche realizzandosi nel legame indissolubile che il poeta viveva con le piccole cose del quotidiano; rimandi a tempi felici, le pantofole della madre, il ricordo di una fugace esperienza sessuale. Da un lato memorie ingombranti, cristallizzate ed idealizzate nel tempo, interpretate dal poeta, dall’altro esperienze pratiche, tangibili, realmente vissute; esperienze colme di pena e forse vergognate.
Ad ora possiamo vedere come il poeta si estranei dal reale. Un burocrate che vive in quell’ anfratto tra la fantasia di un mondo irrealistico ed utopico e la materia, tratta dal dolore e dall’imperfezione. Questo anfratto nella realtà permette l’osservazione privilegiata della condizione umana; un’osservazione dall’alto di un pulpito pagano atta a studiare non tanto l’uomo ma quelle fenomenologie che influenzano quel suo fatale tendere verso l’oblio eterno; oblio che forse, in "La gioventù bianca" supera con un'accenno di gusto metempsicotico e mithridaico. Sebbene infatti Kavafis si definisca un “poeta storico”, e che molti dei bei nomi della nostra tradizione letteraria, impegnati nella sua traduzione, sostengono a loro volta, esso contraddice sé stesso nella stesura della sua penna. Certamente Kavafis porta alla luce nella sua poetica grandi figure storiche, personaggi classici dai nomi non scontati ed eventi segnanti di quello spaccato tra il mondo antico ed il medioevo, ma lo fa imprimendo una filigrana morale nell’azione descritta che ben poco storicizza il “dipinto” proposto. Un esempio lampante è il morituro Antonio che osserva le bolge orgiastiche e brulicanti di tensione vitale di Alessandria, strade carnevalesche, anime in festa, richiami dionisiaci di una vita che tende verso l’imbrunire di un’epoca. Alle porte Ottaviano, o chi per lui, alla testa di un esercito che non lascia spazio all’interpretazione del futuro esito dello scontro. Antonio affronta stoico la fine, l’uomo assume dignità davanti alla morte in questo modo. Un secondo esempio, ben più paradigmatico, è l’ultimo ritratto del “generale”, una lirica che integra molto bene l’antitesi della staticità cristallizzata che adotta invece nella lirica di elogio. Altro esempio di storia antica, ma tinto di un valore ben diverso da quello che ha elogiato Antonio. Se per Antonio l’elogio, infatti, consisteva nella plastica disposizione davanti alla morte certa, consolato dalla consapevolezza d’una appartenenza spirituale alla città d’Alessandria, ben diversa dall’appartenenza alla barbara Urbe, per il Generale le parole spese enfatizzano un corollario di valori negativi che si appellano alla coralità, all’azione, all’intenzione ed alla volontà di confinarsi in una dimensione spaziotemporale ben delimitata.
Il dio abbandona Antonio
traduzione di Margherita Dalmàti
A mezzanotte, d’improvviso, quando
Al suono di una musica che esulta
Fuori si sentono passare non visti
Gli attori in allegra brigata -ebbene
Sulla fortuna che sta per lasciarti, sulle tue
Imprese fallite coi progetti della vita
Che si palesarono illusori, non t’impietosire!
Ma da un uomo preparato per tempo, da forte
Salutala, la tua Alessandria che dilegua.
Non t’illudere, soprattutto non dire che fu un sogno
Che le orecchie t’ingannarono; rifiuta
Queste vane speranze. Come un uomo
preparato per tempo, da forte cui s’addice
l’esser degno di una città come questa,
avvicinati con passo fermo alla finestra
e commosso ma senza l’abbandono
i lamenti e le suppliche dei vili
concediti quest’ultimo piacere! Ascolta il suono
il dolcissimo concerto della mistica brigata
e saluta la tua Alessandria che tu perdi.
Godiamo nel leggere delle parole di conforto nell’acido vivere di quest’ultima serata alessandrina prima della fine dell’esperienza antonina. Traspare, prepotente ed in prima battuta, uno spirito genuinamente legato alla figura del duce Antonio. Anzitutto si noti il titolo tradotto dalla Dalmàti: “Il dio abbandona Antonio”, una sottigliezza, quella della traduttrice, che cala il lettore in quello scenario di complessa appartenenza dello scrittore. Un dio, non il Dio della nostra cristiana tradizione, ma nemmeno quello della tradizione greco-ortodossa. Un eco pagàno di un’epoca passata che riemerge con la contestualizzazione culturale di Kavafis. Il tono, colloquiale, lascia intendere che la distanza tra le due anime, quella dell’Antonio in contemplazione e quella di Kavafis, separati nel tempo ma non nella circoscrizione geografica, sia bellamente superata da una visione cronologico-temporale relativa, la sopracitata “crasi di realtà” in cui vive il poeta. Non v’è una crescente angoscia nella lirica, sebbene sia lecito supporre che il cuore di Antonio dovesse esserne in preda in quel momento; Kavafis presenta così la sua poesia, una stasi totalizzante, entro e fuori i confini emotivi della figura in esame. La frase, due volte ripetute nella lirica, “Un uomo preparato per tempo”, aumenta l’immagine statica dell’azione. Antonio non si destreggia nella difesa della città; come il bambino di Parise, che mangia senza più alcun interesse per il gusto il suo pasto, conscio della morte e della sua natura nonostante la tenera età, anche Antonio, preparato per tempo, attende il fato stoico, invitato dal poeta a partecipare alla visione, e non all’ azione armata, dello sfacelo delle sue truppe ed alla fine del suo sogno. Interessante è anche tentare un collegamento con la psicologia del poeta e questo carnevale del dolore che si palesa davanti alla vanificazione delle progettualità di Antonio. L’invito è quello di non disperare davanti al fortunale che sbaraglia i “progetti della vita”, queste tappe auto-imposte così fragili e così momentanee, favorite dalla “fortuna che sta per lasciarti”. C’è partecipazione, forse immedesimazione, in questo pianto silenzioso e mascherato per Antonio.
Prendiamo in esame le rime baciate di “Morte di un generale”, traduzione di Nicola Crocetti. La staticità dell’azione è involontaria. Il generale, una figura d’interazione corale con la comunità in cui serve, richiamo di quelle figure mitiche che svolgevano una vera e propria funzione nella società in cui versavano, fosse essa pratica, fosse essa di prestigio, spira per una malattia debilitante. Da un lato la maledizione della pena nella vecchiaia, in contrapposizione con il tema classico della morte come liberazione da essa, dall’altro la volontà di interazione del generale. Kavafis ci dice che geme, ce lo dice dopo aver comunicato che arti e lingua fossero atrofizzati. Ma è una condizione che va al di là della mera causa-effetto in campo medico. Se, infatti, il fisico è incapace di progredire l’azione, l’animo, la vera marcescenza del suo essere, è tratto da invidie, lussuria, ira e perfidia. L’azione davanti alla morte, l’irrefrenabile tentativo di esulare la staticità in Kavafis, si realizza proprio nel desiderio; desiderio che in Antonio vediamo abbandonare davanti all’evidenza della sconfitta, sconfitta sopraggiunta per un rovesciamento della fortuna.
Morte di un generale
traduzione di Nicola Crocetti
La mano tesa della morte sfiora
La fronte di un glorioso generale.
La sera la notizia è su un giornale.
S’affolla dell’inferno la dimora.
Ormai i dolori gli hanno atrofizzato
Gli arti e la lingua. Ma lo sguardo gira
E a lungo oggetti familiari mira.
Impassibile, pare un eroe del tempo andato.
Di fuori: avvolto nel silenzio, immobile l’aspetto.
Dentro: marcio d’invidia, ira e perfidia, abbietto,
lebbra e lussuria, ira e perfidia, stolido dispetto.
Geme profondamente. -spira.- è lagna cittadina:
<la sua morte, per la nostra città che gran rovina!>
Che sciagura, con lui ogni Virtù declina.
Il tono, come possiamo notare, è completamente diverso da quello adottato nella lirica di Antonio. La traduzione riporta con grande fedeltà l’evidente spaccato metrico che intercorre tra le due poesie. Da un lato abbiamo un registro che, sebbene si sviluppi in forma colloquiale, si dimostra astratto dall’azione del momento; ispiratore e non descrittivo, partecipe e non spettatore, assoluto dai limiti di tempo e spazio e mosso abilmente in versi che adottano la musicalità per rima interna. Nel secondo caso abbiamo invece una descrizione impersonale, una canzonata metrica in semplici baciate; una descrizione viziosa del popolino, della coralità, di una dimensione umana che ragiona ancora sui piani di spazio e tempo. Due quadri dipinti con colori dissimili nella composizione. Riemerge, prepotente, in "Fiori finti" questa tensione alla perfezione plastica, immutata, dello stato delle cose:" [..] Datemi fiori finti -la gloria del metallo e della porcellana- forma che non reclina, che non sfiorisce e non si decompone [..]". Nella Giovinezza Bianca, "La jeunesse blanche", erompe il timore del vacuo, del momentaneo, la consapevolezza, falsamente giovanile e squisitamente vetusta, del tempo e del suo incessante avanzare: "[..] la nostra giovinezza bianca, bianchissima, ch'è infinita e così infinitamente breve, ali d'arcangelo schide su di noi!.. Incessantemente s'esaurisce [..]".
La grande Regola, però, vien meno proprio lì dove la debolezza dell'uomo cede. L'assedio periodico del ricordo, il quieto vivere del saggio, turbato dalle pulsioni della carne. Il tema della sessualità viene più volte affrontato dall'autore. Come in genere nella sua poesia traspare, la penna dell'alessandrino non è solita alle escalation emotive ed evocative per climax, sia ascendenti che discendenti. Anche lì dove il desiderio erompe con vigore nella lirica, ogni passaggio, ogni fraseggio, è segnato da un esito inteso, certo, consensuale; un successo annunciato dall'inizio che trova conferma in un finale allusorio.
S'informava della qualità
traduzione di Margherita Dàlmati
"[..] Passando davanti ad un negozietto
con in mostra della merce avariata
da poco prezzo, roba da operai,
vide là dentro un viso una figura
che l'indusse ad entrare -e finse
di cercare dei fazzoletti di colore.
S'informava sul prezzo, con voce sorda
resa quasi afona dal desiderio.
La stessa cosa per le risposte:
distratte, appena mormorate
con un sottointeso di complicità
Sempre palando della merce -ma
al solo scopo di toccarsi le dita
sopra i fazzoletti, di accostare
il viso al viso. e le labbra come per caso
in uno sfiorarsi improvviso.
Rapidi e furtivi, che non dovesse
sorprenderli il padrone, laggiù sul fondo".
Sorprende come l'esito sia certo sin dalle prime note descrittive. La staticità anche nella piena tensione passionale, la descrizione leggera, sfocata e vivida insieme di un'emozione. Una doppia tornata, se cinicamente vogliamo vedervi una riproducibilità nella situazione, atta a descrivere non un dato ricordo, ma un dato sentimento. Una complicità sottointesa che non ha colore, orientamento o qualsivoglia altro legame con l'omosessualità del poeta. Un manifesto in cui ogni amante può ritrovarsi, in virtù proprio della nebbia descrittiva che ivi aleggia; ma al contempo rappresenta una data esperienza che, ancora una volta, il poeta avidamente conserva senza fornire al lettore un dettaglio più approfondito di quello che Kavafis intende concedere.
Per quanto speculare sia possibile, appare chiaro, sia in "Prima che il tempo li guastasse" che in "Nelle taverne" che, al tema amoroso segua la naturale conseguenza dell'abbandono, del termine, della mutabilità della condizione. Del resto, l'eros è essenza momentanea, imperfetta; nel caso del poeta poi infecondo. L'Eros è partecipazione, concitazione, sentimento e azione, l'antitesi dell'essenza plastico-statuaria nella mentalità del poeta; destinato quindi alla capitolazione per la sua mutabile essenza.
La vetrina del tabaccaio
Filippo Maria Pontani
"Accanto alla vetrina tutta luce
del tabaccaio, stavano, tra molti.
Gli sguardi s'incontrarono, per sorte:
dissero la vietata bramosia della carne,
timidamente, dubitosamente.
Sul marciapiede, pochi passi d'ansia-
sin che sorrisero, lieve accennarono..
Ed ecco, ormai, nella carrozza chiusa,
il sensuoso tatto delle membra, congiunte
mani, congiunte labbra".
Ancora una volta il climax vien superato dall'ingegnosa disposizione del verso, lì dove il consenso s'esprime palese v'è lo stacco metrico e la risoluzione dell'atto. Ancora una volta il poeta mostra scene del quotidiano, come in "Una notte", [..] Dalla finestra si vedeva il vicolo sporco. Da sotto venivano le voci di operai che giocavano a carte [..]; ancora una volta è la bramosia, l'ebbrezza incontrollabile e corruttrice il motore dell'aspetto erotico dell'uomo, [..] E là, su un lettuccio a poco prezzo ebbi il corpo dell'amore, ebbi le labbra voluttuose e rosee dell'ebbrezza, che anche ora che scrivo, dopo tanti anni! M'inebrio nella mia casa deserta![..]", ed in fine la sua gelosa conservazione.
Tanto piace e tanto turba quella macchia d'artista sulla tela. Il punto di vista, l'interpretabile foschia che il poeta propone ma che sta al lettore capire. In quest'epoca in cui la citazione balla sul labbro di tutti, Kavafis è una risorsa quasi inesauribile di graziosi aforismi. Ma chi nel mondo legge e cita a piacere Kavafis è di certo un'umano senza umanità. Il nichilismo dell'opportunità, lo sciacallaggio dei bei fasti. Prendere fuori contesto le sentenze di Kavafis sarebbe come danzare tra i mausolei in una notte d'estate; sarebbe trasgressivo, dissacrante ed irrispettoso. Tanto negli autori maggiori della tradizione a noi più vicina, penso al Leopardi, quanto per Kavafis la comprensione del contesto è una prefazione imprescindibile dall'esplorazione della sua lirica. Non è sciocco, infatti, pensare ad un ipotetico saccheggio della poesia di Kavafis; il suo unico scudo dai razziatori d'idee sta solo nella lontananza. Il simbolismo indiretto del poeta, facilmente fraintendibile e che molto si presta all'estetica dell'aforisma, ricorda il grande Decadente delle "Corrispondenze"; codice che Kavafis tradusse e che interiorizzò. E se Baudelaire molto subisce oggigiorno la razzia del mediocre è proprio a causa dell'infantile desiderio di dichiararsi periti in questioni la cui pertinenza poco compete. Perché quindi, poiché la competenza in materia è cosa assai rara tanto che la stessa penna che muove l'invito ne è priva, non prendiamo l'alessandrino per quel che è? Perché non limitarci al sorriso, al ghigno, alla lacrima ed alla piacevole malinconia che le rime di Kavafis in noi suscitano?
Arriviamo dunque a considerazioni altre, considerazioni che esulano il mero inchiostro delle poesie di Kavafis. Parliamo quindi di appartenenza. E' stato parlando della suddetta questione, durante i giorni di stesura del Metus Hostilis, che ho avuto modo di constatare quanto realtà apparentemente banali necessitino di un patrocinio speculativo per divenire tali.
Anzitutto partiamo dalla prima grande considerazione che m'è stata mossa rispetto alla vicinanza del poeta.
"Kavafis non è in realtà egiziano, le sue alla fine sono idee europee", corretto. Nulla da obbiettare da un punto di vista meramente pragmatico. Come accennato nella sezione biografica, effettivamente Kavafis è un intellettuale che ha avuto modo di plasmare la sua forma mentis nell'Europa più sofisticata, quella britannica. Kavafis fino alla fine sentirà di appartenere ad una stirpe spirituale di stampo ellenistico, una stirpe che va al di là della mera genealogia, ma che volendo in realtà affonda le proprie origini nella Bisanzio proto-turca. Non dimentichiamo però l'ancora del poeta, la sua volontà nel rimanere ad Alessandria, la sua appartenenza irrazionale, apparentemente, al luogo. Egli diviene parte stessa del "Genius Loci" alessandrino, trascendendo la realtà fisica e temporale, come precedentemente abbiamo detto.
Non si tratta di un poeta europeista, un esule occidentale in terra ostile, si tratta invece d'un triste ed irriverente frammento di una classicità persa, e se considerassimo tale classicità come malta per il forte legame ideologico-occidentale che ancora nutre non cadremmo in errore.
Persa nel tempo la nozione di quello che è il bello, l'emozione, la condivisione, la cultura altra, va perdendosi anche la grandezza dell'essere umano; grandezza di spirito e d'idea, considerata "fuori dal tempo" ed irrimediabilmente obsoleta, che è la classicità in tutte le sue forme. E Kavafis ne parla in modo indiretto, a suo fare, nelle sue liriche; un focus d'azione e descrizione totalmente incentrato sul carattere naturale degli elementi, sulle emozioni, sulle realtà che esulano la natura consumistica della società: le istituzioni odierne, la burocrazia in cui il poeta s'immerge per necessità, le catene della modernità si librano leggere, intangibili; macigni di realtà sono invece le emozioni, i richiami ad un tempo che non v'è più; le risa dei greci italici, le barche sulle acque mediterranee, il pathos di exempla morenti. Un rifiuto del brutto, nato dall'incomunicabilità estetica delle creazioni illogiche del contemporaneo. Difficile è domandarsi se l'astrazione del poeta nella società in cui versava non fosse in realtà "immersione nel reale".
Bibliografia
Filippo Maria Pontani -"Poesie", Mondadori Editore (1997)
N. Risi M. Dalmàti -"Settantacinque Poesie", Enaudi Editore (1991)
Ezio Saverio -"Poesie Segrete", Crocetti Editore (1985)
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