Si parte. Il cambio di orario deciso dall’azienda titolare del sistema ferroviario (non la nomino perché riconoscere un’entità o una persona con il suo effettivo nome sarebbe, già solo per il fatto di attribuirgli la sua denotazione, un segno di rispetto, me lo hanno insegnato a storia romana), anticipato di due vitali minuti, mi costringe ulteriormente ad accelerare il passo per evitare di dover aspettare una mezz’ora in piedi a Santa Lucia, eletta stazione più umida d’Italia ex aequo con Ferrara e Venezia Mestre. Prendere il treno al volo, soprattutto quello delle 17.43, come in questo caso, significa dover dividere il posto da quattro (ah, giusta precisazione: a quest’ora l’azienda mette a disposizione solo treni degli anni ’70, che propongono solo posti da quattro utenti) con altri tre personaggi. Operaio addetto alla manutenzione di qualche caseggiato lagunare, impiegato d’ufficio regionale, provinciale, o, per meglio dire, della città metropolitana, vestito tirato a lucido nonostante ore “pensanti” di mansioni, badanti, turisti di qualsiasi angolo del globo spaesati dalla situazione, e poi i più numerosi, variopinti e i più a loro agio in quel marasma, noi studenti: queste sono di solito le categorie frequentatrici dei convogli, soprattutto a quest’ora dell’imbrunire. Perché marasma, vi chiederete. Beh perché salire in un vagone in questo momento della giornata significa entrare in una sorta di bazar orientale di Samarcanda nel cinquecento, o al mercato del pesce di Tokyo all’asta dei tonni, o ancora meglio alla stessa Venezia in alcuni frangenti del carnevale o al Redentore. Significa dover convivere con gente assiepata ovunque, in piedi, appoggiata a qualsiasi protuberanza della carrozza, con borse, valigie, zaini, sacchi ammassati sulle mensole metalliche poste sopra ai sedili, e dover navigare con l’olfatto, come nel migliore dei bazar possibili, tra fragranze di spezie, aliti, profumi e essenze più o meno, di solito meno, piacevoli e appaganti. Questa volta il fato ha voluto che io abbia trovato un posto a sedere piuttosto favorevole: sono vicino al finestrino a sinistra del corridoio. Alla mia destra si trova uno di quei personaggi elencati prima, un probabile quarantacinquenne in carriera. Indossa un panciotto da cui emerge una cravatta dalle tinte che mi ricordano le migliori pitture vascolari cretesi, con ventiquattro ore in pelle color cuoio appoggiata sulle ginocchia, da cui spuntano cartelline colorate. Il fatto che non sia un millennial, nonostante l’apparente aspetto fresco, barba curata e capelli color terra di Siena, me lo suggerisce il fatto che utilizza cuffiette non atte in realtà all’ascolto della musica, con il dispositivo per le chiamate, scomodissime per il fatto che una cuffia è più lunga dell’altra, dato che andrebbe collocata dietro la testa. Ecco l’indizio chiave per definire l’età: un giovane, a meno che non abbia rotto le cuffiette titolari, non si penserebbe mai di adoperare quel modello. Chi lo sa, un avvocato? Dirigente di banca? Fantasticare sulle vite delle figure sui treni è una bella palestra per affinare le abilità da osservatore. Di fronte a me una ragazza, serena in volto, pelle chiara, capelli castani chiari abbastanza corti con frangetta, giacca in jeans, Converse ai piedi, libro, ahimè, di paraletteratura tra le mani, sfogliato però con avidità. Certamente Nicholas Sparks o chi per esso è più interessante de “Il giocatore” di Dostoevskij o di qualche storia del criptico Stephen King. Amen, sono gusti. Alla destra della lettrice un’altra signora, abbastanza anonima, occhiali suri nonostante il sole sia abbastanza basso ormai, anche se, come già so, nella posizione in cui sono collocato, fra poco a me darà parecchio fastidio. Anonima perché scorre la propria bacheca facebook, presumo, con un cellulare abbastanza datato, un anonimo Samsung, non fa trasparire particolari emozioni nemmeno al suo abbigliamento, anonimo anch’esso. Uno di quei personaggi indecifrabili da treno, che all’aspetto trasmettono solo un po’ di pena, magari perché lavorano in un negozio in difficoltà in qualche calle non battuta dai turisti, o semplicemente per il fatto che la loro mansione non soddisfa le loro passate ambizioni, e non vedo l’ora di varcare l’uscio di casa, accolti dal marito intento a cucinare o dal fido cagnolino, con il quale andranno a fare una passeggiata catartica nel loro quartiere dormitorio, grigio e, che lo dico a fare di nuovo, anonimo. Come avete potuto capire, la mia attività, oltre a rispondere a qualche messaggio ogni tanto e ascoltare musica con delle cuffiette adatte, è osservare, scrutare, ipotizzare.
L’accelerazione che ho dovuto esercitare per agguantare il treno, come al solito, mi fa sudare come un olimpionico, soprattutto in questa mezza stagione, in cui Shrek e il suo motto “gli orchi sono come le cipolle” andrebbe attuato nel modo di vestire, dato che all’ora di pranzo una camicia sarebbe anche eccessivamente coprente, mentre, già a quest’ora, un maglioncino di filo di lana sovrastato dalla giacca pseudo-invernale, non è sufficiente a scaldarti. Ad aggravare il tutto vi è il clima tropicale sub-sahariano a cui è sottoposto il vagone, per gentile concessione dell’azienda ferroviaria. In più, la mezza marcia mi provoca sempre un dolore difficilmente sopportabile al muscolo sopra la tibia, il cui nome ogni volta mi prometto di scoprire, ma puntualmente me ne dimentico. La vettura, in questa fase del viaggio, procede in maniera noiosa, a ritmo blandi, stile melina in una partita il cui risultato è già determinato. L’andatura, però, in questa fase viene resa accettabile dallo spettacolo che in maniera rituale si apre una volta imboccato il Ponte della Libertà, polmone di Venezia, che permette alla città lagunare, come un qualsiasi anfibio, di raggiungere la terraferma e di respirarvi, una volta uscita dall’acqua. La mia postazione è un posto in prima fila per assistere a ciò. In questa stagione, infatti, il sole comincia ad abbassarsi dietro le ciminiere di Porto Marghera e si riflette sul bacino lagunare in maniera accecante. In una giornata limpida come questa, poi, se non sei provvisto di occhiali da sole, la vista non è sopportabile. Il riflesso, quasi come un eclissi di pochi secondi, viene coperto da un aereo, in fase di atterraggio all’aeroporto Marco Polo, collocato a destra del ponte e non scrutabile da me nel posto in cui sono seduto. La vista di un qualsiasi velivolo, in questo preciso frangente della giornata, mi porta un senso di malinconia: quando toccherà a me prendere il volo per vacanza, svago o lavoro la prossima volta? Come avete capito fino ad adesso in questo testo, il viaggio e l’osservazione sono due aspetti ben connessi e che adoro. Il tramonto e il sottofondo musicale mi permettono di estraniarmi dal caos di voci, suonerie e strofinii di borse e cerniere che mi avvolge, e di addolcire il dolore alla tibia e di rilassarmi dalla faticosa giornata, dato il gran uso di olio di gomito per prendere appunti e le energie psichiche sottratte dalle spiegazioni dei professori. Il treno procede sempre lentamente, il ponte è quasi finito. Il sole comincia a sparire definitivamente dietro gli ultimi capannoni del polo petrolchimico, lo spettacolo è quasi finito. Finalmente il convoglio accelera un fiato, il panorama esterno ora è anonimo, proprio come la donna che ho davanti, intenta ad annaffiare la sua alienazione tastando lo schermo. Incrocio lo sguardo con la ragazza di fronte, per sbaglio le ho urtato un piede stiracchiandomi e gambe ancora indolenzite. Quel libro deve proprio piacerle, avrà letto una dozzina abbondante di pagine in 10 minuti scarsi di viaggio. Quanto a me, leggere in treno è un’attività che ho abbandonato. Quando “in una vita precedente”, per citare Cremonini, andavo su e giù a Ferrara, là la situazione era differente e più propizia alla lettura: più tempo, dato che il viaggio era notevolmente più lungo, e questo mi permetteva di spalmare meglio le distrazioni, dato che osservare e fantasticare è il mio hobby preferito mentre sono in treno. Ora la mezz’ora di tragitto non mi invoglia alla lettura, non mi permette di concentrarmi a sufficienza perché è già ora di scendere. Ci siamo, prima fermata. Il regno del grigio, capsula del tempo di un passato che quasi non c’è più, insieme di fabbriche, autorimesse, rotaie inutilizzate, archeologia industriale. Pian piano il convoglio rallenta, ecco il classico odore acre della frenata che ingloba il vagone, si ferma, pochi che scendono, tanti che salgono, soprattutto dal polo scientifico universitario di Via Torino. Eh si, siamo a Venezia Porto Marghera. Io, assorto nel cercare ancora segni di vita nella distesa di cemento invecchiata e annerita dal sole al capolinea alla mia sinistra, aspetto, assorto, ascoltando un brano dei Talk Talk, il cui cantante, morto, mi ricorda questo posto, anch’esso spento come una candela usata, anch’essa arrivata al capolinea.
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