top of page

Asso di picche

Immagine del redattore: Carlo MarasciuloCarlo Marasciulo

Aggiornamento: 25 nov 2019


Owen Leever osservava con leggero e annoiato distacco la scena che si stava svolgendo a pochi metri di distanza. Un gruppetto di donne e uomini in compiti abiti neri era radunato davanti ad un feretro, una bara contenente le spoglie mortali del defunto Albert Timforth. Scatarrò al suolo, appoggiandosi mollemente alla pala che stringeva in mano. Non aveva rimorsi. Albert, che conosceva dai tempi delle scuole elementari, si era meritato la punizione.

Pur non essendo legato a nessuno in particolare, e non avendo famiglia da mantenere, la vita di Owen non era semplice. Oltre a lavorare come dipendente comunale quale giardiniere del parco pubblico e becchino del cimitero di Merry Hill, si occupava di un’altra miriade di lavoretti saltuari e occasionali, ma i soldi che racimolava gli bastavano appena per rimanere a galla. Forse sarebbe potuta migliorare se avesse deciso di smettere di riversare la maggior parte delle sue entrate in alcol e gioco d’azzardo, ma questi erano piccoli dettagli a cui, in quel momento, non aveva voglia di pensare. Un paio di pinte di birra ogni sera e frequenti partite a poker con gli amici erano gli unici due rimedi che conosceva per cercare di animare un’esistenza che qualcun altro avrebbe ritenuto vuota e sciatta. La sua casa era una di topaia, piena di rifiuti e immondizia di vario genere, in cui tornava solo per dormire dopo aver passato la notte altrove. A quasi trent’anni suonati, Owen era un relitto umano che viveva alla giornata.

Tutto era proseguito abbastanza tranquillo sino alla settimana precedente. Quando, di nascosto, aveva scorto Albert barare durante una partita a poker. I due, insieme ad un altro quintetto di amici, si erano ritrovati all’Old Hill’s Pub. Durante una mano, sul piatto erano stati messi quasi trecento dollari, cinquanta dei quali appartenenti a Owen. Con un tris di re, aveva pensato di aver la partita in pugno, ma prima di puntare nuovamente, aveva visto Albert sostituire una delle sue carte con un’altra che sino ad allora aveva conservato nella manica destra della camicia.

Il suo primo istinto era stato quello di fracassargli un bicchiere di birra sul volto per spappolargli quella faccia di merda che si ritrovava, ma una qualche vendicativa vocina nella testa gli aveva suggerito di aspettare e vedere cosa sarebbe successo.

Dopo aver abbandonato la mano per evitare di perdere altri soldi, il croupier di turno aveva annunciato al resto dei giocatori partecipanti di mostrare le carte. Con un grande sorriso, quel bastardo di Albert aveva schiacciato tutti esibendo una scala reale e arraffandosi un succoso bottino di verdoni. Qualcuno era rimasto in silenzio, troppo sbigottito per credere di essere stato fatto fuori in maniera così eclatante, mentre altri avevano imprecato e borbottato sottovoce, maledicendo la madre e la fortuna sfacciata di Albert. Grazie ad una misteriosa forza che gli aveva permesso di rimanere lucido, Owen si era complimentato con l’amico per l’ottima giocata, nonostante la sua mente ribollisse di furia omicida.

La serata era proseguita con una classica gran bevuta in compagnia, ma lui non aveva toccato una singola goccia. Aveva deciso di rimanere sobrio, per evitare che, una volta ubriaco, la rabbia a stento repressa sfociasse in un torrente di ferocia culminante con lo schiocco secco di un collo che si spezzava. Albert era alto, questo era vero, ma lui era più massiccio e nerboruto. Erano andati avanti a festeggiare fino a notte inoltrata, poi ognuno era tornato arrancando verso le rispettive dimore. Quando si era disteso a letto, Owen era rimasto con gli occhi aperti, meditando un castigo appropriato da infliggere al baro. Si era addormentato solo quando aveva iniziato ad albeggiare, un malefico sorriso di trionfo disegnato sulle labbra sottili.


Per tre giorni non aveva più frequentato l’Old Hill’s Pub, interrompendo per la prima volta il consueto ritrovi con gli amici, i quali avevano trovato questo fatto strano, tanto che alla fine avevano deciso di telefonargli per assicurasi che non gli fosse capitato qualcosa di brutto. Prontamente, aveva risposto di essersi beccato una brutta influenza, ma che in poco tempo sarebbe riuscito a ristabilirsi.

Mentre spargeva bugie e false notizie sul suo conto, era riuscito a recuperare da un buio e sporco angolo della sua casa l’oggetto che faceva al caso suo, un pugnale a doppia lama giunto in chissà quale misterioso modo. Lo aveva lavato e aveva rimosso la sottile patina di ruggine che lo ricopriva in alcuni punti.

Era quindi giunta l’ora della vendetta. Una sera, non appena le tenebre erano calate su Merry Hill, era uscito di casa vestito di nero. Aveva indossato un passamontagna per evitare di farsi riconoscere, ed era scivolato fra le ombre come un’oscura presenza, evitando le gialle chiazze di luce dei lampioni o i bianchi fari delle auto in transito. Dopo aver strisciato nel buio per quasi un’ora, era giunto a destinazione. In silenzio, si era posizionato nei pressi della porta di servizio dell’Old Hill’s Pub, acquattandosi con il coltello stretto nella mano, attendendo.

Il retro del locale era spesso usato come cesso dagli avventori troppo sbronzi per raggiungere con le proprie forze i bagni. A questi individui bastava spalancare la porta, aprire la patta, pisciare, chiudere la patta e tornare ai propri affari, che fosse continuare a bere, giocare a carte o entrambe. Il luogo in cui si era posizionato Owen odorava di un penetrante e pungente tanfo di urina, a cui si univa il dolciastro e stomachevole puzzo di immondizia.

La porta si era aperta, e nella debole luce proveniente dall’interno distesasi sul terreno, si era stagliata, scura ma nitida, l’alta sagoma di Albert. Ubriaco, era ciondolato in avanti cercando di sbottonarsi i pantaloni nel vano tentativo di svuotare la vescica per terra e non nei pantaloni. Approfittando di questo momento di distrazione fatale, Owen aveva colpito. Balzando fuori dall’oscurità, con la mano sinistra aveva serrato la bocca della vittima in una morsa d’acciaio impedendogli di gridare, mentre con l’altra, muovendo il coltello in un arco orizzontale, gli aveva tagliato la gola recidendogli di netto la carotide. Persino attraverso i pesanti guanti da lavoro che indossava era riuscito a percepire il calore del sangue. Un brivido di opaco piacere gli aveva attraversato il corpo.

Si era dileguato fra le ombre da cui era giunto. Prima ancora che il cadavere dell’ubriaco stramazzasse al suolo in una pozza purpurea, l’assassino era già lontano dal luogo del delitto.


Era tornato a causa esausto, l’adrenalina gli aveva prosciugato tutte le forze. Quando era rientrato di soppiatto nella sua abitazione, si era esaminato a lungo. Sulle sue vesti non erano presenti macchie. Aveva gettato coltello e guanti in un tombino, la corrente doveva averli trasportati chissà dove.

Non appena si era tolto il passamontagna, si era esaminato il volto allo specchio. Aveva ucciso un uomo, , un amico, una persona con cui era cresciuto … ma che gli aveva rubato dei soldi. Non era per il denaro che aveva deciso di ammazzarlo. Era per il modo con cui glielo aveva sottratto. Con il tradimento, cercando di fotterlo, quando lui avrebbe tranquillamente potuto affermare di fidarsi di Albert. Almeno fino a quella maledetta sera in cui lo aveva visto fare quel trucco con le carte, un imbroglio che andava avanti da chissà quanto tempo. Meglio non pensarci.

Nonostante queste oscure congetture, Owen aveva notato sulla sua faccia un’espressione diversa, rilassata. Forse era proprio quello il termine adatto per descrivere come si era sentito in quel momento. Calmo, tranquillo, purificato. Non aveva rimorsi per l’atto che aveva compiuto, era certo di aver fatto la cosa giusta. Sapeva che nessuno mai avrebbe potuto incolparlo, il suo era un alibi di ferro. Di certo non avrebbero mai sospettato di lui, a letto malato, che con Albert era stato sempre in ottimi rapporti, con cui non aveva mai avuto uno screzio o un battibecco. Era stato attento a non lasciare tracce o indizi.

Sorridente, dopo essersi spogliato, si era gettato a letto, scivolando in un sonno pacifico e senza sogni.


Il giorno dopo, a svegliarlo era stato lo squillo del telefono. Alzandosi in piedi mugugnando vaghe imprecazioni, aveva alzato la cornetta di malavoglia e aveva risposto con uno scocciato e assieme assonnato pronto chi è?

Gli aveva risposto la rude voce dello sceriffo Dawson. Per lui era stato come ricevere una secchiata di acqua gelata sulla schiena. Si era irrigidito sulla sponda del letto, il pensiero di essere stato scoperto pulsava furioso nella mente, simile a un rumoroso e rosso allarme antincendio, ma si era costretto a rimanere calmo. Dopotutto, come avrebbero potuto ricollegare la morte di Albert alla sua mano omicida? Avrebbero potuto ritrovare il corpo subito dopo il passaggio di Owen e aver avvito le indagini nella notte, ma era improbabile che fossero già riusciti a risalire a lui.

Dopo aver risposto con voce tremante, il poliziotto lo aveva messo al corrente della morte del suo amico. Intuendo di non essere sospettato di nulla, si era rilassato, afflosciandosi su se stesso con un ghigno malefico stampato sulle labbra. Aveva adottato un tono addolorato.

Lo sceriffo lo aveva sottoposto a una serrata raffica di domande. No, non vedeva Albert da più di quattro giorni perché nel frattempo si era ammalato e aveva preferito rimanere a casa a curarsi e no, non aveva idea di chi avesse potuto perpetrare un simile abominio ai danni di un uomo buono come lui e di nuovo no, non gli pareva proprio che Albert avesse problemi con chicchessia, tantomeno con conoscenti o possibili creditori e infine Cristo Santo non posso ancora credere che sia successo, sceriffo lei non sa quale dolore mi stia procurando dandomi questa terribile notizia.

Il poliziotto aveva abboccato all’amo. Terminato l’interrogatorio e augurandogli di guarire in fretta, gli aveva chiesto di tenersi a disposizione nel caso servisse una mano per condurre le indagini o se qualche agente gli avesse voluto fare altre domande per chiarire possibili punti oscuri.

Owen aveva cordialmente ringraziato lo sceriffo, auspicandogli di riuscire a risolvere la faccenda, per poi riattaccare. Per tutto il tempo si era trattenuto, ma anche quando aveva riagganciato la cornetta aveva atteso qualche istante, timoroso di essere udito da orecchie indiscrete. Assicuratosi di essere realmente da solo in casa, protetto da quelle luride quattro mura, scoppiò in un coro di risate isteriche che chiunque, udendole, avrebbe definito bestiali.


Si era dato malato anche quel giorno, ma quello successivo aveva deciso di emergere dall’isolamento per non destare sospetti. Girando per le strade di Merry Hill, aveva trovato una cittadina abbattuta e impaurita. Le persone avevano timore che un brutale assassino senza volto si aggirasse fra di loro, pronto a colpire di nuovo. Aveva deciso di assumere anche lui un’espressione meditabonda.

Aveva tenuto sotto controllo il corso delle indagini. Come c’era da aspettarsi, la polizia brancolava nel buio. Secondo gli sbirri, Albert era forse stato eliminato da sicari ingaggiati da strozzini a cui lui non era riuscito a restituire del denaro. Per Owen, tutto ciò era autentica manna caduta dal cielo.

Ironia della sorte, come amico del defunto, e becchino, gli era stato chiesto di seppellire la vittima dopo che questa era uscita dallo studio del medico legale che aveva esaminato il cadavere.

Il giorno del funerale, mentre lo sceriffo e i suoi assistenti continuavano a fare buchi nell’acqua e si mormorava un possibile intervento dei federali nella faccenda, alcuni cittadini si erano radunati presso il cimitero di Merry Hill per dare l’ultimo saluto ad Albert. Pur non avendo moglie e figli, e nemmeno genitori, morti entrambe qualche anno prima, era conosciuto in qualità di tuttofare, bevitore o amico.


La funzione terminò. I presenti iniziarono a varcare il grande cancello di ferro battuto, in che costituiva l’unico accesso al camposanto della cittadina, tutti silenziosi e con il capo chino. Qualcuno si soffermò a lanciare un ultimo bacio al feretro, fatto sprofondare nella terra, o a gettare nella fossa un colorato fiore di campo da poco colto, ma alla fine tutti presero la via del ritorno, abbandonando quel luogo che già scivolava nel languido imbrunire di una sera primaverile.

Owen attese che anche il prete se ne fosse andato. Scatarrato al suolo una seconda volta, si accinse a compiere il lavoro per cui era stato pagato dalla cittadinanza, la quale si era inoltre sobbarcata le spese del funerale, dato che Albert non aveva abbastanza soldi per pagarselo nemmeno una volta morto. Si posizionò davanti alla buca, osservando la bara sottostante con disgusto e scherno.

Un assassino torna sempre sul luogo del delitto.

Un tremito gli percorse la schiena. Il pensiero lo mise a disagio.

“Eccoci qui, vecchio bastardo, alla resa dei conti. Io vivo e tu sotto tre metri di ottima terra scura. Ti sei beccato quello che meritavi.”

Il tono era minaccioso, ma le parole gli scivolarono dalle labbra come in un bisbiglio. Era a disagio. Tremò. Forse si trattava del profondo e assoluto silenzio, oppure del sottile e fresco venticello che spirava scuotendo debolmente le chiome degli alberi. Magari alla fine si era beccato sul serio un qualche tipo di malanno.

Tirò su con il naso. Le ombre si addensavano nella voragine ai suoi piedi, nonostante potesse ancora scorgere il cupo scintillare del legno tirato a lucido. Iniziò a spalare le zolle dentro la buca, producendo un sordo tonfo ogni volta che queste piombavano sul coperchio della bara. Il suono gli fece accapponare la pelle, nonostante svolto tale compito decine di volte.

Questa volta è diverso, vero Owen? Questa volta c’è qualcosa di personale.

Rabbrividì ancora. Si ripromise di colmare la fossa il più rapidamente possibile, poi si sarebbe fiondato all’Old Hill’s Pub per scolarsi un paio di pinte di birra in santa pace.

Poi giunse quel suono, quello che nessun uomo sulla schifosa faccia della Terra vorrebbe sentire mentre è occupato a seppellire il cadavere di qualcuno a cui ha rifilato il benservito.

Tud…tud…tud.

Era come se qualcuno stesse bussando da dentro la bara. Owen rimase paralizzato dall’orrore, ogni suo arto congelato. Immagini folli si susseguirono nella sua mente, terrori senza forma e senza nome. Cercò di respirare, ma scoprì di riuscire a farlo solo con estrema fatica. Era sull’orlo di una crisi, o qualcosa del genere, ma nel panico generale che ribolliva nella sua testa, cercò di dare una spiegazione razionale a ciò che stava succedendo.

Era possibile che Albert non fosse morto davvero, e che, oltre ad essere sopravvissuto, fosse stato sepolto vivo e ora cercasse disperatamente di scavarsi una via di fuga verso la salvezza, tentando di sfondare il coperchio della bara con la sola forza della mani e delle braccia, squarciandosi le dita e spezzandosi le unghie graffiando il legno. Ma Albert era morto, lui stesso gli aveva tagliato la gola con un coltello. L’autopsia lo aveva aperto e ricucito, i suoi organi erano stati estratti, osservati e rimessi al loro posto. Quindi, chi o cosa poteva produrre quel suono?

Venne strappato da tali assurde congetture quando udì il fragore di qualcosa che andava in pezzi. Le narici vennero assalite da un tanfo rivoltante, il puzzo stomachevole dei gas della decomposizione. Cadde a terra, reprimendo a stento i conati di vomito e abbandonando la vanga. I suoi occhi iniziarono a lacrimare, ma cercò di allontanarsi dall’orrida fossa, un baratro di tenebre in cui ora si stava muovendo qualcosa che lui non desiderava vedere, una mostruosità che avrebbe minato alla sua sanità mentale.

Stava per rialzarsi, quando un artiglio gli si chiuse intorno alla caviglia. La parte razionale del suo cervello, che fino a quel momento aveva lottato per mantenere il controllo del suo corpo e della sua psiche, cedette alla follia più nera. Contro la sua volontà, ruotò il capo. Qualcosa in lui voleva vedere ciò che doveva rimanergli precluso. Il volto si congelò in una maschera di puro e silente orrore.

La cosa che un tempo era stata Albert Timforth gli stava sorridendo, un abominevole ghigno inumano. La pelle del volto e delle mani era verdastra, cadente, le vene esposte di un repellente colore ceruleo. Fra i denti giallastri e acuminati si dimenavano vermi, mentre dalla gola squarciata dal colore necrotico proveniva un sibilo acuto, come se la creatura stesse respirando. Ma ciò che sconvolse di più Owen furono gli occhi, così azzurri, così vivi, quando quelli di Albert erano stati color nocciola.

“Vieni qui, Owen … vieni da me … ho fame, molta fame” sussurrò la cosa con voce gracchiante e terrosa, facendo schioccare l’abominevole dentatura seghettata e umettandosi le labbra livide con una lunga e pallida lingua.

Cercò di divincolarsi dalla morsa che gli serrava la gamba, ma era inutile. Improvvisamente, si rese conto l’essere lo stesse attirando a se con l’ausilio di un solo braccio. La sua forza era prodigiosa, un diabolico vigore impossibile da contrastare. Al culmine della disperazione e della pazzia, Owen ululò di frustrazione e terrore, ma nessuno lo udì. Era come se il cimitero fosse stato scaraventato in una realtà avulsa e parallela. Nessuno sarebbe giunto ad aiutarlo, nessuno lo avrebbe salvato.

Chi rompe paga.

Piantò le dita nel terreno, cercando di ancorarsi e opporre resistenza alla e blasfema creatura che lo attirava verso il basso, ma fu inutile. Le mani scivolarono pateticamente sul terreno umido, le unghie si incrinarono nel vano tentativo di aggrapparsi ai sassi che sporgevano in mezzo all’erba. Con un ultimo, stralunato grido, Owen venne inghiottito dalla fossa, precipitando per l’eternità in un inferno più buio della tenebra stessa.


Le indagini riguardo la morte di Albert Timforth proseguirono per un altro mese, dopodiché, nonostante il supporto dei federali, il caso venne archiviato. L’assassino pareva essersi dileguato nel nulla, senza lasciare traccia del suo passaggio. Per quel che ne sapeva lo sceriffo Dawson, a quell’ora il killer poteva essere già essere arrivato dall’altra parte del mondo. Chi fosse questo individuo, e quale fosse stato il movente dell’omicidio, nessuno lo scoprì mai.

Non fu l’unico evento strano e inquietante che si verificò in città in quel periodo. Il giorno del funerale di Timforth, anche Owen Leever scomparve. Di lui si perse qualsiasi traccia. Qualcuno mormorò fosse scappato perché forse, in qualche modo, era anch’egli implicato nella morte dell’amico, nonostante la polizia non avesse su di lui uno straccio di prova. Si trattava comunque di chiacchiere da bar, prive di fondamento. L’ultimo posto in cui Leever era stato avvistato era il cimitero, dove aveva presieduto alla cerimonia funebre del compagno di bevute per poi occuparsi della sepoltura Ma una volta giunti lì, Dawson e i suoi non avevano trovato altro che una pala una fossa ricolma di compatte zolle di terra fresca e il camioncino con cui Owen si spostava, parcheggiato oltre l’inferriata che delimitava il perimetro del camposanto. Era come se lo scomparso fosse fuggito improvvisamente, inseguito da chi o cosa nessuno poteva dirlo, lasciando a Merry Hill tutti i suoi averi.

L’unico ritrovamento che lasciò perplessa la polizia locale durante le brevi ricerche fatte per rintracciare Leever, fu quello effettuato dall’agente Klunt. Si trattava di una carta da gioco, una di quelle usate per il poker, raffigurante, per la precisione, un asso di picche. Non venne tuttavia rinvenuto nessun altro reperto utile a condurre le indagini, e con il tempo, anche questo caso venne dichiarato irrisolto.



36 visualizzazioni0 commenti

Post recenti

Mostra tutti

Comments


bottom of page