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Venezia Mestre: capitolo II

Immagine del redattore: Davide ZennaroDavide Zennaro

“Buonasera, biglietto?” Già, è giunto il momento del viaggio più coincitato. Quel frangente in cui dimostri chi sei, se sei su questo mondo, se sei una persona organizzata, intraprendente, o semplicemente sveglia, se hai voglia di chiaccherare, instaurare rapporti, se odi l’autorità, chiunque essa sia, da tua madre all’ammiraglio generale della Marina Militare Italiana, se sei pigro, sbadato, se rispetti il lavoro degli altri, se sei furbo, finto furbo, furbo ingenuamente o in malafede, un ladro o un onesto, un bontempone o un amorfo. Ecco tutto questo è condensato nel momento del controllo del “titolo di viaggio”, come lo definirebbe l’azienda che non va citata. Chi meriterebbe un’approfondita analisi è quella del “cattivo”, come lo identificherebbe il ladro o il furbo di prima: il controllore. Tutti piuttosto giovani di solito, spesso ragazze anche piacevoli alla vista, con entusiasmo data l’età, a volte, invece, personaggi più stagionati che si trascinano tra le carrozze, con lo spirito non più vitale di un branzino che giace esanime sul banco della pescheria a fine giornata, solo, perché poco o nulla è rimasto invenduto, con l’occhio spento e anonimo. A proposito di anonimato, provate ad indovinare chi dei quattro del mio scompartimento è in difficoltà a recuperare il biglietto, e rovista nella borsa affannosamente, sudacchiando data l’alta temperatura? Troppo facile, vi ho dato troppi indizi. Essendo una persona sicuramente pratica di treni, perché ogniqualvolta che arriva il controllore non è attrezzata, scattante, ben sapendo che, prima o poi, quel momento arriverà? Chi lo sa, la risposta la sa solo lei. I miei occhi si incrociano con la ragazza davanti, sorridiamo, ci siamo capiti. Lei è addirittura più avanti di me: l’abbonamento, lei, lo usa come segnalibro del tomo di Sparks. Che smart, come direbbero quelli che si danno arie di superiore intelligenza. Quanto a me, è sempre riposto nel portafoglio. Chi voglia rubarmelo, ora lo sa. Come ha reagito il mio vicino di posto, vi chiederete. Voto 7, prestazione sopra la media. Saluta, mostra il QR dell’abbonamento sul suo padellone di cellulare, ringrazia: essenziale.

Nel frattempo, siamo ripartiti a passi tardi e lenti. Il sottofondo musicale, quasi a farlo apposta e a sottolineare il luogo deprimente in cui il convoglio continua a trovarsi, rimane un brano di un’altra star passata a miglior vista, traccia di Chris Cornell e dei suoi Soundgarden. La distesa di cemento prosegue incontrastata il suo regno, conglomerati di edifici anneriti dallo smog e dal tempo. Ecco, il tempo. “Un’ora, non è solo un’ora, è un vaso colmo di profumi, di suoni, di progetti, di climi” scrive Proust ne “La ricerca del tempo perduto”, opera imbevuta della filosofia del francese Bergson, padre della dottrina sul tempo oggettivo e soggettivo. Il tempo della scienza, come una collana di perle, insieme di istanti tutti uguali, oppure il tempo nostro, personale, le tue percezioni dello scorrere dei minuti, il classico “anno più lungo del mai” o “un’ora volata”. Si il tempo mi affascina, si era capito. Le mirabolanti altalene temporali dei film di Christopher Nolan pane per i miei denti. Qui, in questo angolo tra laguna e pianura, il tempo non c’è. Non è nemmeno fermo, proprio non c’è. Dopo la morte di qualcuno ne rimane il suo ricordo; qui non c’è neppure quello. O meglio, il ricordo c’è ma si censura. Creatura scomoda, questo polo, per i veleni che ha sprigionato e che sprigionerà. Solo un’oasi sopravvive in questa desolazione armata, ci passiamo ora di fianco: il cantiere navale di Fincantieri. Come un’infermiera nel reparto nascite di un ospedale, che vede passare infanti ogni giorno e li osserva crescere un po’ finché non li lascia andare per non sapere più nulla di loro, così, se frequenti spesso questa tratta, guardi crescere come neonati questi bestioni di crociere, ogni giorno di un piano, fino al momento in cui sono complete, si staccano dalla nutrice e lì non torneranno più. Da questo momento in cui il deserto finisce si passa ad una zona subsahariana, non ancora zona temperata, ma cominciano a farsi più numerosi i segni di vita umana e lo scorrere del tempo. Alla mia sinistra si allunga un serpentone di auto in fila, un concerto di fanali di gente che dovrebbe aver finito di lavorare, ma forse è proprio ora il momento più insostenibile e lungo, in cui il tempo soggettivo è decisamente più dilatato di quello oggettivo, quello che sono costretti a sopportare: la coda in tangenziale. Quanto a noi, tutto sommato comodi e non responsabili dei nostri spostamenti e non soggetti a code, abbiamo appena varcato il limes della stazione di Mestre, il passaggio sotto al cavalcavia che collega la superstrada alla mia sinistra e la periferia più congestionata di Mestre, la più grande città del mondo a non essere un comune autonomo. Che curiosità eh! Pian piano ci adagiamo alla banchina; da cui comincerà sostanzialmente un nuovo viaggio, dovuto al rimescolamento di personaggi, profumi, borse e cellulari di chi scende e di chi sale, di chi è arrivato e di chi parte. Arriverderci ai primi, benvenuti ai secondi.

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