4 marzo 2019, Cividale del Friuli
Ho raccolto materiale a sufficienza per riempire libri, ma cercherò di essere quanto più breve possibile in modo tale da non appesantire la narrazione perdendomi in digressioni inutili e fissare i concetti e i ricordi principali.
Dopo una rinvigorente dormita, ho fatto colazione nella sala comune del Casale, rusticamente arredata. Il mio tavolo era posto dinanzi ad una grande finestra dotata di terrazza dalla quale il mio sguardo poteva spaziare su tutta la campagna circostante. Una veduta magnifica che mi ha fatto ben sperare sulla buona continuazione della giornata. Ho scambiato alcune parole con i proprietari. Mi hanno edotto sulla storia dell’agriturismo, inutile dire che in me hanno trovato un ascoltatore più che ben disposto. Il complesso sorge come un’unica torre di avvistamento in epoca tardo antica o altomedievale, quando l’area era pressoché disabitata e soggetta alle scorrerie dei predoni germani o slavi. Con il passare del tempo, la torre venne sostituita da una magione che durante l’800 venne eletta a dimora estiva e di campagna dalla famiglia dell’attuale padrone, utilizzata per sfuggire per periodi più o meno lunghi dalla vita urbana di Udine. Nello stesso periodo venne eretto uno chalet su quella punta dell’altura rivolta verso Cividale, una costruzione piccola ma molto graziosa, in stile tedesco, in memoria di un viaggio compiuto in Svizzera da un antenato del proprietario (nonno o bisnonno, non rammento). Ora disabitata, venne impiegata quale salottino da tè o grande stanza ove andare a suonare strumenti musicali. Il proprietario, divenuto signore indiscusso della tenuta, decise di renderla un’azienda agricola aperta al pubblico, trasferendovisi con tutta la famiglia. Le cantine sono state nominate più di una volta, per tal motivo domani sono intenzionato a visitarle.
Senza perdere tempo, mi sono diretto a Cividale. Sorge sulle rive del Natisone, un fiume simile ad un torrente che qui scorre fra alte ripe rocciose. Nasce in Slovenia, possiede un fondo sassoso che gli garantisce acque limpide, a tratti profonde, dotate a tratti da sfumature verde – smeraldo. Le sue metà del centro sono messe in comunicazione da un ponte di età contemporanea posto a sud e da un altro più a nord, detto “del Diavolo”. Edificato intorno al XII secolo, venne fatto brillare dopo Caporetto per non consentire il transito alle dilaganti truppe austriache, per poi essere ricostruito nel 1918, imitando il modello precedente. Il nome deriva dal fatto che gli abitanti, incontrate difficoltà nell’erigerlo, chiamarono in soccorso il Diavolo, che promise di aiutarli solo se avesse potuto reclamare l’anima del primo essere vivente che vi fosse transitato sopra. I cittadini acconsentirono, e il Diavolo completò l’opera in una sola notte. Gli abitanti vi fecero allora transitare un maiale, gabbando il Demonio. Altre versioni raccontano come Satana pose solamente il masso che funge da appoggio per il pilone centrale del viadotto. Ho voluto riportare questa storiella poiché ritengo sia doveroso, da parte di un attento viaggiatore, analizzare anche il folklore locale.
Detto questo, mi sono recato presso la Cappella Longobarda. Il sito si trova all’interno di un monastero ora adibito a museo. Devo dire che il percorso tematico al suo interno non è molto ben curato, un profano di storia e di storia dell’arte farebbe fatica ad orientarsi e a capire ciò di cui ci si sta occupando. In ogni caso, in una chiesetta annessa al monastero era presente il coro ligneo della Cappella, ora in restauro e risalente suppongo al VII o VIII secolo, date le chiare influenze bizantine che si possono riscontrare sugli intarsi delle sedute. Particolarità di questo ambiente secondario è il matroneo che si sviluppa lungo la parete di fondo e di quelle laterali. Venendo alla Cappella, si tratta di una sala non grande, delimitata per la gran parte da un cordone che vieta l’accesso alle sue parti più delicate. Tutto suggerisce un sincretismo artistico dell’architettura, degli affreschi e delle sculture fra culture bizantina, romanica e longobarda.. Una parte degli affreschi, le colonne corinzie e le sculture sono tipicamente bizantine, in particolar le figure umane, dotate di acconciature, accessori e vestiti orientali. Un architrave ligneo presenta motivi rozzi e dorati indice dello stile semplice ed efficace tipico dell’arte longobarda, mentre gli affreschi della volta che accoglie i visitatori, successivi e databili al XII secolo, ricordano quelli di Cimabue e Giotto, perciò romanici.
Ottenuta la chiave presso la portineria, mi sono diretto all’ipogeo celtico, un vasto ambiente sotterraneo risalente al IV o III secolo a. C. L’ho esplorato a lungo, valutandone la profondità e l’ampiezza, oltre al numero di sale e nicchie, disposte su più livelli. La presenza di due grandi mascheroni infissi sulle pareti e ritraenti un personaggio maschile hanno fatto prevalere in me l’ipotesi secondo la quale questo umido luogo fosse impiegato dalle popolazioni preromane celtiche quale santuario per officiare riti purificatori o simili in onore di una qualche divinità ctonia legata all’acqua dolce. Le nicchie dovevano essere certamente impiegate per ospitare effigi o materiale rituale. I romani avranno di certo riutilizzato tale ambiente per funzioni religiose.
Tappa successiva è stata il Duomo, un grande edificio dalla facciata e dal campanile romanici, ma le mie aspettative sono andate incontro ad una forte delusione quando ne ho visitato l’interno. Nulla di particolare, fatta eccezione per una meravigliosa pala d’altare in lamina d’oro di epoca altomedievale, ritraente la Madonna e il Bambino benedicenti posti fra i due arcangeli, Michele e Gabriele, tutti e quattro in abiti bizantini. La scena è circondata da figure di santi e vesti anch’essi vestiti all’orientale, ognuno riconoscibile dal nome punzonato che ne accompagna l’immagine. I quattro personaggi, le cui aureole sono impreziosite con gemme, sono sormontati dalle effigi degli evangelisti, privi di descrizione. Unica figura che si discosta nell’abbigliamento dalle altre è San Giorgio, armato di lancia e dotato di un usbergo e di uno scudo tipicamente “barbari”, forse raffigurato come un nobile longobardo.
D’obbligo è stata l’incursione al Museo Archeologico Nazionale. La quantità di reperti in esso contenuta è esorbitante, tale da fare la gioia di qualsiasi studioso del medioevo e dell’antichità, dato che gli oggetti ivi presenti spaziano dal periodo romano a quello prerinascimentale. Degni di nota sono i rinvenimenti bronzei di epoca augustea, fra i quali clipei, iscrizioni e una splendida erma più che ben conservata, l’immagine di un personaggio pubblico che dovette ricoprire funzioni di rilevante importanza all’interno della comunità d’appartenenza. Vi sono poi steli funerarie, ceppi, frammenti di architettura, pavimentazioni e mosaici. Strabiliante quello che raffigura il ritratto di una divinità marina che non sono riuscito ad identificare, forse Posidone, dotato com’è di una folta capigliatura e barba e affiancato da un gruppo di delfini.
Ma la maggior parte della collezione è occupata da una mirabolante carrellata di reperti longobardi, da suscitare invidia in quella di Pavia (Ticinum). Si tratta di manufatti rinvenuti principalmente nella necropoli, com’è normale per la maggior parte degli oggetti medievalo – barbarici, corredi funebri appartenenti a donne e uomini liberi o nobili, fra i quali primeggia la tomba di un cavaliere ritrovato insieme al suo cavallo. Questo mi fa supporre che alla morte di simili individui anche gli animali che li accompagnavano in battaglia venissero immolati durante il funerale. La quantità di spille, croci, fibbie, spade, pugnali, umboni e manufatti di uso comune quali pettini e contenitori di vetro (provenienti dalla laguna veneta?) è straordinaria, e vi si aggiungono filigrane d’oro impiegate per impreziosire le vesti e monete provenienti dalle zecche di Pavia, Treviso, Benevento e Bisanzio, ottenute mediante gli scambi commerciali effettuati con l’Esarcato, la laguna di Grado e il Meridione. L’influenza bizantina si avverte sulle effigi dei sovrani longobardi ritratti sui denari, dotati di vesti, accessori ed espressioni che ricordano quelle degli imperatori di Costantinopoli, anche negli ornamenti, i cui dettagli sono ottenuti mediante punzonatura o reinterpretando modelli germani unendoli a quelli orientali. Sorprendente è la capacità longobarda in tale ambito, quello dell’artigianato, per essere stato un popolo di nomadi guerrieri a cavallo. I loro manufatti sono incredibili, apogeo dell’arte “barbara”. Passano dal lavorare l’argento, presente nel bacino del Danubio, al produrre oggetti nel più malleabile oro, ottenuto di certo mediante scambi con Bisanzio. Ciò mi fa presumere che, nonostante la rivalità fra i due popoli, dovesse sussistere anche un necessario e fruttuoso scambio commerciale che permettesse la sopravvivenza di entrambe. L’incontro fra culture differenti è capace di creare simili perle. E posso immaginare l’impressione che i bizantini, piccoli e bruni, avessero di questi giganti di provenienza scandinava, pallidi e dagli occhi chiari, barbuti e dotati di folte chiome, resi ancora più temibili dai grandi cavalli che montavano. Quello di Cividale è un tesoro di inestimabile valore storico – culturale, è difficile trovare un si grande collezione in paese più piccolo di Treviso, a sottolineare la profonda e ricca tradizione di queste terre di confine.
E il confine è l’ultima tappa del mio viaggio, almeno per oggi. Spinto dalla curiosità nonostante la stanchezza, dopo un breve e frugale pasto presso Piazza Diacono, dal nome dello storico autore della Historia Longobardorum, mi sono diretto a nord – est, risalendo la Valle del Natisone per fare una puntata in Slovenia. Procedendo, oltre a Cividale la campagna si restringe sempre più per poi scomparire definitivamente fra le prealpi Giulie e Carnie. Con sorprendente rapidità, i campi lasciano spazio a strade che si inerpicano sui fianchi di questi colli scabri e dall’aspetto selvaggio. O centri abitati si fanno viepiù piccoli e sporadici, nonostante ogni casa sia adornata dalla bandiera della Patria e dell’Unione. Avverto un grande sentimento patriottico ma che si attaccamento alla comunità, tipico di chi abita presso zone di confine, pur essendo bendisposti nei confronti dello straniero, o almeno così mi sembra. Il tempo nuvoloso della giornata aumenta l’asprezza del paesaggio, già desolato di suo. Una boscaglia fitta orla la strada, ora deserta di qualsiasi presenza umana . Tutto è spento e muto, tranne un torrente sassoso che con tutta probabilità è il Natisone, eppure, in un modo che non del tutto comprendo, avverto la vita dormire. La primavera non è distante, ma ci vorrà ancora molto tempo prima che muova i suoi primi, timidi passi fra queste basse e brulle colline. Passo la frontiera, ma il paesaggio mi pare lo stesso di prima, fatta eccezione ovviamente per le scritte in slavo che non comprendo. Si tratta di una breve permanenza. Presto imbocco una strada che si avventura fra le montagne, ho solo un sporadica visione di alcune, alte vette innevante ma incornate da nubi che ne celano le estremità più elevate. Mi tuffo in un fitto bosco guardingo che fiancheggia i tornanti, e dopo aver attraversato alcuni paeselli che mi paiono disabitati e che ho idea non vedano mai la luce del sole durante la stagione invernale, bellissimi nella loro tristezza, ritorno in Italia, diretto al Casale.
Sono stanco ma contento, e il tempo uggioso non ha vinto il mio umore come solitamente invece accade, per quanto ami pioggia, freddo e nebbia. Il materiale raccolto è sterminato, la ricerca è stata fruttuosa, quindi credo di essermi meritato una doccia bollente, una cena calda e una sana dormita.
Comments