5 marzo 2019, Cividale del Friuli
Comincerò la cronaca di oggi parlando della cena di ieri sera al Leone d’Oro in centro a Cividale. Spettacolare, non ci sono parole per descrivere la bontà del cibo degustato. Antipasto costituito da rosa di Gorizia, un radicchio locale più dolce di quello trevigiano, sformato di carciofo, tre tipologie di formaggi, uno fatto maturare nella paglia, uno fra le vinacce e un altro costituito dalle croste rifuse, a cui sono seguiti altrettanti salumi, coppa, salame e speck, morbidi e dal sapore sopraffino. Vengono dunque un piatto di pappardelle al ragù di cinghiale e per finire gelato di produzione locale alla vaniglia affogato al cioccolato, scenicamente messo nel piatto davanti ai miei occhi tramite una tecnica di avvolgimento fra due cucchiai che assomigliava ad un trucco da prestigiatore. Il tutto ovviamente accompagnato da un ottimo Schioppettino, vino locale. Per chiunque transiti per Cividale il Leone d’Oro è tappa obbligatoria.
Tornando verso l’agriturismo ha iniziato a piovere, per cui temevo tempo avverso stamane al risveglio, dove invece ho trovato cielo limpido e aria fresca. La campagna era illuminata da una luce dorata e le vicine montagne, anche le più alte e innevate, erano ben visibili. Il maltempo della sera aveva lavato il cielo e il clima. In compenso ho sofferto del consueto dolore al ginocchio sino a dopopranzo. Atroce come sempre, ma ho sopportato.
Mi sono recato a Udine. Devo dire che ho trovato la città molto caotica e sporca, confusionaria, e molti suoi luoghi di interesse erano chiusi al pubblico. Un castello sorge in cima alla collina che domina l’abitato, un edificio ora convertito a museo dotato di un grande cortile panoramico, un porticato che conduce verso il centro storico e una chiesetta affrescata con decorazioni gotiche munita di campanile, la più antica pieve della città. L’ambiente era chiuso per restauri così come buona parte del museo.
Sceso dalla collina, mi sono tuffato nel cuore pulsante del centro. Ai piedi dell’altura è presente una torre campanaria prospiciente una piazza dotata di fontana monumentale, una statua di Eracle e di un altro individuo che non sono riuscito a riconoscere, oltre alla raffigurazione di quella che mi pare Bellona, adorna di insegne, corazze e armi. Sono presenti anche altre due colonne sormontate da un leone alato e dalla Giustizia dotata di bilancia. Questi due elementi, uniti al Palazzo Comunale posto dinanzi e di chiarissimo stampo veneziano, suggeriscono il dominio che la Serenissima esercitò sul territorio sull’entroterra friulano. La torre, la piazza e il palazzo sono una riproduzione in miniatura del Campanile e di Piazza San Marco e di Palazzo Ducale. Dietro questi si trova un’interessante edificio stile liberty che ospita un locale elegante del medesimo stampo, in cui tuttavia non sono entrato.
Il vicino Duomo è dotato di una particolare facciate che unisce elementi romani e gotici, e i suoi tre portali presuppongono una divisione in tre navate. Il campanile è ottagonale, e alla base ospita un battistero. Essendo chiuso, non ne ho potuto visitare l’interno, lasciando così tronca la mia descrizione. Mi sono recato dunque presso Piazza San Giacomo, una delle più antiche della città, circondata su tra lati da portici, mentre il quarto è chiuso dall’omonima chiesa in stile barocco, tuttavia chiusa.
Amareggiato per trovarmi sprangati così tanti edifici, mi sono diretto verso Palazzo Monte di Pietà, lì vicino, in cui, in una cappella barocca, le pareti ritraenti scene del supplizio di Cristo dalla Flagellazione alla Crocifissione, è ospitata un’interessante Pietà, anch’essa barocca. Ultima tappa del mio tour udinese è stata Cappella Manin, poco fuori dal centro, così chiamata perché commissionata dalla famiglia veneziana dei Manin, barocca nei fregi e nei rilievi ispirati a tematiche ed episodi della cristianità. Per alleviare il mio malumore ho deciso di acquistare un libro, e girovagando per la libreria alla fine ho trovato un’interessate opera contenete tutte le tragedie pervenuteci appartenenti a Sofocle, Eschilo e Euripide. Dopodiché ho abbandonato Udine perché ero stanco del suo chiasso.
Come suggeritomi dai proprietari del Casale la mattina a colazione, anche oggi ricca e soddisfacente, mi sono diretto a Passariano, un paesino di campagna ospitante la meravigliosa Villa Manin del Palladio. Commissionata dalla già citata famiglia Manin nel XVII secolo, essa è composta da due grandi emicicli contenenti un spazio erboso terminate in un ponte fiancheggiato da statue di eroi in lotta fra loro. La magnifica e ampia facciata barocca è affiancata lungo ambo i lati da colonnati sulle cui sommità sono poste numerose statue. Emicicli e colonnati sono dotati di alcove, due delle quali presentano delle entrate dalle quali si può accedere alla villa. Un paio di piccoli laghetti sono posti davanti alla costruzione, denotati da acque cristalline in cui nuotano pesci. Uno dei due colonnati ospita un ristorante, mentre l’altro un museo delle carrozze. Oltrepassata una sala superbamente dipinta, oltre che incredibilmente fresca, si accede al vasto giardino sul retro della villa, in cui, secoli addietro, i nobili Manin passeggiavano godendosi la bellezza loro donata dall’alternarsi delle stagioni. Si tratta di un vasto parco dotato di centinaia di antichi alberi, sculture disposte lungo i vialetti, un ninfeo, un imeneo e le riproduzioni del monte Etna e Parnaso, entrambe adornati con gruppi scultorei, il tutto di gusto seicentesco.
La calura opprimente, tipica della primavera e segno dell’imminente suo progredire, e il ritorno del dolore alla gamba, oltre ad una certa sonnolenza, mi hanno convinto a tornare a Cividale per riposarmi. La campagna ancora racchiusa nel riposo e nel sonno invernale delineava un netto contrasto con il calore proveniente dal sole e con la densa e appiccicosa foschia prodotta dal levarsi da terra dell’umidità accumulatasi durante la notte e la prima mattina. Sembrava di muoversi in un sogno nebuloso e confusionario, ma al tempo stesso piacevole, quasi gradito. L’atmosfera mi ha molto incuriosito, quindi ho idea che stasera, prima di riprendere la lettura di Erodoto, cercherò di comporre qualche verso di senso compiuto.
Tornati a Cividale e al Casale mi sono avviato verso quello che, non a torto, consideravo l’incontro più importante della giornata. Il luogo in alloggio è anche un’azienda agricola specializzata nella produzione di vini tipici della contrada, ed essendoci la possibilità di fare visita alle cantine, stamane ho fatto esplicita richiesta di poterle osservare. I proprietari si sono dimostrati più che felici di soddisfare questa mia richiesta, perciò hanno designato il figlio come mio Cicerone, essendo lui quello più coinvolto nella produzione in quanto studente di enologia. Ciò che ho subito colto della sua persona è la passione e la grande conoscenza che impiega all’’interno di una simile attività, un amore che, in parte, credo sia riuscito a trasmettermi con le sue dettagliate eppure limpidissime spiegazioni.
Innanzitutto mi ha condotto nella cantina in cui l’uva decanta in grandi contenitori metallici, aspettando di essere trasferita in botti lignee una volta divenuta mosto e quindi vino. Si tratta di un’azienda che impiega metodologie biologiche, ovvero utilizza solo solfato di rame o zolfo per proteggere le piante, oltre a fare uso di api per mantenere puliti gli acini o di insetti “positivi”, come le coccinelle, per scacciare eventuali parassiti. Non impiegano concimi, ma solo rivoltano le zolle per permetterne l’aerazione concimandosi così naturalmente. La sgranatura dei grappoli avviene in modo tale che gli acini rimangano integri e non si spappolino perdendo contenuto e proprietà utili alla maturazione di un buon prodotto.
Ci siamo quindi trasferiti nella cantina vera e propria, dove i vini riposano a lungo in botti di vino di quercia prima di essere imbottigliati. I tempi di maturazione vanno dai due anni per i bianchi ai tre sino ai quattro per i rossi, in modo tale da realizzare un vino quanto più “naturale”, ovvero senza l’impiego di additivi esterni che velocizzino il processo. Ad in influenzare il sapore concorre anche e soprattutto la terra dove nasce e cresce la vite produttrice di acini. Dopo un’accurata spiegazione di tipo tecnico – scientifico che ho compreso solo in parte, data la mai scarsa conoscenza in materia, siamo passati alla degustazione vera e propria.
Va detto che il sapore del vino varia enormemente a seconda di dove abbia riposato, più limpido e leggero se in contenitori metallici, greve e denso di altri aromi se in botti di legno. Mi sono perciò approcciato a quattro tipologie di vino, un paio di bianchi, il Friulano, 12°, leggero e secco, lievemente dolce e chiaro, e il Sauvignon, 13°, più corposo e con un accenno di frizzante, dolce e ambrato, quasi moscato, e due rossi, ovvero lo Schioppettino, 14°, decisamente migliore di quello assaggiato ieri, leggero per essere un rosso e dal gusto delicato, di colore porpora, e il Pignolo, in assoluto il mio prediletto, 15°, forte e secco, regala al palato una sensazione piacevolmente decisa, eccellente e di colore scuro, profondo, quasi nero.
Aver scoperto come tali meravigliosi vini sia possibile ottenerli mediante corriere anche nella lontana Treviso è stato per me fonte di grande gioia, da grande appassionato del bere e del mangiare che sono. In definitiva, la visita alle cantine è stato un felice passatempo per cui ringrazio enormemente il mio gentile e cordiale anfitrione. Dopo cena mi metterò a dormire, dopo una sana lettura si intende, la giornata di domani è interamente sulla strada.
P. S.: mi sono dimenticato di annotare quanto importante sia il terreno ove sono piantate le viti per quanto concerne il loro rendimento per ettaro misurato in quintali. Normalmente, per fare un paragone comprensibile, un ettaro di vitigni di prosecco produce seicento quintali di uva. Questo perché la terra dove cresce è grassa e ricca di macroelementi. Ciò garantisce una grande produzione di vino “leggero”, e questo spiega perché tutti, in Veneto, si siano messi a produrre prosecco, saturando il mercato e le nostre tavole. Ciò che doveva essere un bene pregiato è divenuto una semplice merce che pare più un manufatto industriale che un dono dell’agricoltura, ridotto a mero prodotto di fabbrica. Disgustoso.
In Friuli la situazione è decisamente diversa. Il terreno aspro e ricco solo di microelementi garantisce una produzione di gran lunga inferiore, fra un decimo e un ventesimo rispetto a quella del prosecco, dove per i bianchi corrisponde un raccolto di sessanta quintali per ettaro e per i rossi trenta quintali per ettaro, assicurando tuttavia l’imbottigliamento di vini più decisi e particolari nel gusto, oltre ovviamente più pregiati poichè “rari”.
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