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LA BESTIA

Immagine del redattore: Carlo MarasciuloCarlo Marasciulo

Il tramonto disegnava strane ombre nel sottobosco della densa foresta, amorfe e inquiete linee di crepuscolo fra alberi contorti e nodosi. I rami si incrociavano fra loro in una tetra parodia di membra, strangolandosi a vicenda alla ricerca di luce e calore. L’aria sotto le fronde morenti era umida e greve, odorava di stantio e marcescenza come se si trattasse di un’antica tomba appena scoperchiata. Una tetra cripta vegetale.

Un cavaliere solitario procedeva sotto la galleria creata dall’intrico delle frasche, il rumore degli zoccoli attutito dalla fanghiglia del sentiero avvolto nel silenzio. Il bruto torreggiante che montava il nero stallone da guerra era racchiuso in un’armatura che scintillava cupa negli ultimi, scialbi raggi di sole. Un fodero contenente una spada bastarda era assicurato all’ampia schiena, mentre una lunga daga gli pendeva dal fianco. Un paio di pistole erano riposte in delle fondine incrociate sopra l’inguine.

Ser Bain il Selvaggio tirò le redini del destriero, arrestandolo. Si sporse dalla sella e sputò un denso grumo di catarro, dopodiché si guardò intorno ringhiando una sonora bestemmia in direzione del bosco. Quel posto non gli piaceva. Non ne era intimorito, vi erano poche cose al mondo che lo spaventassero, ma una densa aura di minaccia trapelava dalla foresta, una pesante cappa d’angoscia.

Aveva commesso un grave errore fidandosi di quegli uomini, ma ormai era troppo tardi per tornare indietro e instillare in quei subumani un po’ di buonsenso tramite acciaio e polvere da sparo.

Non aveva gradito l’accoglienza ricevuta quella mattina una volta fatto il suo ingresso nel sudicio agglomerato di bicocche che si spacciava per un villaggio. Immonde tane fatte di fango e paglia, circondate da sterili campi e recinzioni entro i quali si aggirava scheletrico bestiame.

Gli abitanti di quel posto erano anche peggio. Una spettrale e cenciosa massa di individui dalle pance gonfie d’inedia. Facce scavate dalla fame, pelle tesa sulle ossa sottostanti, occhi grandi incassati nelle orbite profonde. Barbe e capelli folti, arruffati e incrostati dal sudiciume. Lerci corpi ridicolmente coperti da nauseabonde strisce di tessuto che un tempo dovevano essere stati vestiti. Alcuni di loro presentavano vistose deformazioni fisiche, ma nessuno mutazioni vere e proprie. Il puzzo che si levava dalla laida folla era nauseabondo.

Poteva solo immaginare quali aberranti storie di incesto e degrado si annidassero dietro quei volti smunti dalla povertà, dalla malattia e dalla malnutrizione. Era il destino comune a molte popolazioni abbandonate ed isolate nelle zone selvagge del regno, intrappolate in quelle regioni e impossibilitate a fuggirne. Fosse stato ser Bain il sovrano, avrebbe mondato con il fuoco quei luoghi e ne avrebbe massacrato la popolazione. Ma il re era troppo impegnato ad intrattenersi nei suoi bagordi presso la capitale.

La mandria di rottami umani si era debitamente tenuta a distanza dal colosso armato e dalla sua altrettanto gigantesca cavalcatura, ma un vecchio decrepito, forse l’anziano capo del villaggio, gli si era avvicinato, trascinandosi ed aggrappandosi convulsamente ad un semplice bastone. Era minuscolo in confronto al suo possente interlocutore, un sacco di pelle sottile contenente fragili ossa con cui nemmeno gli avvoltoi e gli sciacalli si sarebbero degnati di pasteggiare. Nei suoi occhi affetti dalla cataratta baluginava un bramoso interesse.

Ser Bain gli aveva chiesto quale direzione dovesse prendere per allontanarsi dalla contrada boscosa in cui era accidentalmente capitato, e se esistesse un posto sicuro dover fermasi per la notte. Il decrepito essere gli aveva risposto vi fosse un’antica strada, oltre il villaggio, che conduceva ad un monastero dove abitavano alcune sacerdotesse, ma che fosse oramai troppo tardi per raggiungerlo prima del calar delle tenebre. Gli era stato offerto un riparo presso la sala comune, ma il cavaliere aveva rifiutato.

Un brivido di disgusto gli aveva percorso la schiena quando aveva scorto una strana luce nello sguardo di numerosi contadini dopo aver udito la proposta che gli era stata rivolta. Non era gente amante degli stranieri, ed era strano volessero si fermasse con loro. Non gli erano nuovi terrificanti racconti riguardo cannibalismo e necrofagia praticati in luoghi abitati da uomini ma dimenticati dagli dei.

Il vecchio aveva allora cercato di convincerlo a fermarsi raccontandogli una storia inerente la foresta che si apprestava ad attraversare. Essa pareva essere infatti abitata da qualcosa di orrendo, una creatura non meglio identificata che cacciava nelle notti prive di luna. Numerosi tagliaboschi non erano tornati a casa disceso il tramonto, così come parecchi avventurieri erano stati inghiottiti dagli alberi.

Ser Bain aveva bollato quelle storie come semplici superstizioni. Non era improbabile che nel folto della selva si aggirassero bande di mutanti o qualche strano essere, ma di certo non avrebbero attaccato un cavaliere in asseto da guerra completo. Solitamente sceglievano prede più deboli. E credeva di scorgere un fondo di menzogna riguardante la misteriosa sparizione di quegli uomini. Forse erano stati davvero divorati, ma non da un mostro. La fame poteva rivelarsi una brutta belva da domare.

Fattosi indicare la via, si era lasciato alle spalle lo squallido villaggio insieme ai suoi altrettanto miseri abitanti, alcuni dei quali impegnati a compiere complessi e sconosciuti gesti di scongiuro. Ora che tuttavia la notte cominciava a discendere sul triste mondo, potè capire perché la foresta incutesse un sacro timore agli abbietti villici. Una fine ed inquietante caligine iniziò ad addensarsi fra i tronchi, scivolando silenziosa e tetra su muschi e licheni.

Stanco, decise di accamparsi. Non sarebbe riuscito a raggiungere il monastero entro sera come si era prefissato. Smontò con agilità ed eleganza da cavallo, ma non appena toccò terra, avvertì qualcosa scricchiolare sotto i suoi piedi. Abbassando lo sguardo, notò si trattasse di frammenti appartenenti ad un osso molto lungo, forse un femore, seminascosti in mezzo al tappeto di foglie morte che copriva parte del sentiero. La provenienza era umana, la riconobbe subito. L’esperienza come macellaio professionista presso i campi di battaglia aveva maturato in lui una particolareggiata conoscenza anatomica. Accosciandosi, esaminò con attenzione i macabri resti. Spolpati e spezzati sino al midollo. Un lavoro di fino.

Fece spallucce. Qualsiasi cosa si aggirasse in mezzo a quei boschi, doveva essere parecchio affamato, ma non lo avrebbe trovato impreparato. Rialzandosi, afferrò le briglie del cavallo e lo condusse ai margini della strada, lì dove si apriva una leggera conca orlata da massi divorati dalla vegetazione, legandolo ad un tronco caduto. Raccolse della legna e si adoperò per accendere un fuoco.

La sera calò come un cupo ed umido sudario. La nebbia si fece più densa, l’armatura s’imperlò di grosse gocce d’umidità. Ser Bain rabbrividì, protendendo le mani sulle fiamme che illuminavano la scena spettrale. Diede allo stallone della biada contenuta in una delle sacche da viaggio, poi si sistemò preparandosi una frugale cena. Divorò la carne secca con parsimonia, assaporando il gusto salato di ogni singolo boccone.

Si guardò intorno. Il silenzio, per quanto inquietante, lo metteva a suo agio, rifletteva la mestezza del suo animo. Era un solitario, odiava la compagnia dei suoi simili. Li frequentava solo per trarne profitto, non intendeva mascherare i suoi istinti egoistici sotto una patina di maleodorante perbenismo, e traeva piacere nel sapersi evitato a causa dell’aspetto rozzo e minaccioso. Non avrebbe potuto chiedere di meglio.

Stappò con un morso il tappo della borraccia, sputandolo fra le gambe. Le narici vennero assalite dall’invitante e caldo odore del grog. Ne ingollò appena due sorsate, le scorte diminuivano a vista d’occhio. Il liquore sortì l’effetto desiderato. Lo scaldò e lo risvegliò. La gola gli bruciava piacevolmente. Mise da parte i viveri e sguainò la spada bastarda benedetta, poggiandola con dolcezza sulle ginocchia.

Addossò la schiena al comodo supporto offerto da una pietra inclinata, incrociando le muscolose braccia dinanzi l’ampio petto. Lo attendeva una lunga e tacita notte di veglia, e ogni volta che avesse avvertito il dolce e traditore richiamo del sonno, avrebbe bevuto e riattizzato il fuoco.

Oltre il piccolo accampamento, la bruma divenne un solido miasma biancastro. La selva era buia e silenziosa come sempre.

Si ridestò di soprassalto, maledicendo l’ingannevole stanchezza che si era impossessata del corpo e della mente, strisciando circospetta sulle membra. Ricordava di aver chiuso gli occhi per qualche istante, forse per dar loro tregua dal fumo sprigionato dalle fiamme, ed era allora che doveva essersi addormentato. Si domandò se non fosse stato vittima di un sortilegio emanato dall’aura dell’abominevole bosco. Il mondo era zeppo di luoghi saturi di stregoneria.

La nebbia era calata, ma nell’oscurità silvana il senso di pericolo pareva essere aumentato a dismisura. Nere ombre si protendevano verso il cavaliere quali aberranti e suadenti tentacoli.. Si rialzò facendo schioccare le giunture e sciogliendo i muscoli intorpiditi dal sonno. La spada in pugno, ravviò il modesto falò ridottosi a meri carboni ammiccanti nelle tenebre. Le vampe si levarono nuovamente, allontanando il buio.

Si avvicinò al cavallo. L’animale era inquieto. Sbuffava e pestava gli zoccoli per terra. Ser Bain aveva imparato a fidarsi delle bestie, spesso più sincere degli uomini. Il nervosismo del destriero gettò una strana inquietudine sul suo animo. Si girò istintivamente di scatto quando credette di udire qualcosa provenire dall’altro lato del sentiero, oltre lo scuro muro degli alberi. Trascorse un lungo momento di silenzio, quindi di nuovo quel suono.

Crack.

Rami spezzati sotto un passo pesante. Qualcuno, o qualcosa, si stava avvicinando, forse attratto dal bagliore del fuoco nella cupa notte della foresta. Ser Bain raccolse un grosso ramo e ne incendiò l’estremità, mentre con l’altra mano impugnò la bastarda. Nelle terre selvagge, il fuoco era amico dei viandanti solitari. Avrebbe fatto meglio a fermasi presso il decrepito villaggio, oppure galoppare selvaggiamente in direzione del monastero, ma ormai era troppo tardi. Una silenziosa e terrificante presenza lo studiava oltre il riparo offerto dalla tenebre, valutando e attendendo. Poteva percepirla. Fuggire era impossibile.

“Chi è là? Fatti vedere!” tuonò, ma la sua voce gli parve piccola e insignificante come quella di un bambino.

Ricevette una risposta che mai si sarebbe aspettato. Un dolce canto scaturito da una limpida voce femminile, un posata melodia che si fece strada nel suo cuore di pietra, conquistandolo e movendolo a pietà. Non comprendeva il significato delle parole pronunciate dall’invisibile ancella, appartenenti ad una lingua a lui sconosciuta, ma ne afferrava il significato generale. L’invito di una fanciulla rivolto al suo amato prediletto, il desiderio di voler giacere insieme per sempre, amandosi in preda all’ebbrezza. Avrebbe raggiunto la fonte di quel magnifico suono che aveva fatto leva sui suoi sentimenti più nascosti e profondi, rigandogli le gote di limpide lacrime.

Poi avvertì l’odore. Penetrante e ripugnante, il rancido lezzo della putrefazione, come se centinaia di lebbrosi cadaveri fossero stati ammassati da qualche parte nel bosco. Carne marcita nell’acqua di un ributtante stagno dimenticato. Soffocò, inginocchiandosi e sputando nel tentativo di liberarsi i polmoni e le narici dal fetido miasma. Improvvisamente, si rese conto di essersi allontanato dal fuoco, incamminando verso la foresta. Doveva essere caduto vittima di un sortilegio, stregato dalle ingannevoli note. Era stato il pestilenziale tanfo a ridestarlo dal malefico sogno.

Ritornò presso il fuoco mentre alle sue spalle si levò una risata che gli gelò il sangue nelle vene. Alta, ragliante e priva di senno, non poteva appartenere a nessun essere umano. Le corde vocali si sarebbero squarciate nell’empio tentativo di riprodurre quel suono. Un grande massa iniziò a farsi strada caricando fra gli alberi, abbattendoli nella sua avanzata, non curandosi più di ricorrere agli usuali metodi per intrappolare la preda.

Ser Bain si mise in posizione, il ramo ardente davanti al bastarda, attendendo l’arrivo del nemico. Il cavallo nitrì impazzito, gli occhi bianchi d’orrore, le rosse froghe dilatate, una schiuma bianca alla bocca. Lo ignorò.

La foresta esplose quando una visione da incubo si palesò dinanzi le fiamme. Due grandi ali dalle membrane squarciate si sollevavano inerti sopra un grasso, massiccio e nauseabondo corpo da rana completamente glabro, sorretto da quattro muscolose zampe terminanti in artigli. Il dorso era ornato da placche ed escrescenze ossee. Una robusta coda terminate in un grosso aculeo sferzava l’aria irrequieta. Su una poderosa testa dalle fattezze vagamente umane, dotata di un collo taurino, si apriva un’ampia bocca da batrace, sormontata da numerose paia di gialli occhi che lo osservavano con crudele e affamato interesse.

L’afrore proveniente dalla creatura era ottenebrante. Sapeva di non avere scampo, una certezza che accettò con serena lucidità. La sua vita era da sempre stata segnata dalla morte, e avrebbe accolto la sua senza rimpianti. Un epico duello contro un abominio vomitato da chissà quale aberrante grembo gli sembrava una degna fine per un cavaliere errante. Pur terrorizzato dall’orrida apparizione, non si sarebbe lasciato docilmente fare a pezzi. La febbre della battaglia ribolliva nella sua mente, e fece l’unica cosa che il mostro non si sarebbe aspettato. Ringhiando, si gettò sull’avversario.

Sghignazzando orribilmente, la cosa aprì le larghe labbra, facendo scattare una lunga e prensile lingua. Ser Bain si scansò poco prima di essere afferrato, calando la spada sul muscolo e mozzandolo di netto. Un icore nerastro scaturì dal moncone. La creatura indietreggiò sbalordita, strillando di dolore. Mai nessuno era riuscito ad opporre resistenza al suo assalto, ammaliato dal canto ingannatore o annientato alla sua vista. Gli occhi brillarono di puro odio e istinti belluini, quindi si lanciò sulla scintillante figura che gli stava dinanzi. Il fuoco lo intimoriva, ma lo avrebbe estinto spappolando al suolo chi lo brandiva.

Ser Bain si abbassò, evitando un artiglio che lo avrebbe privato del braccio destro, quindi iniziò a roteare la bastarda e la torcia in un turbine d’acciaio e fiamme, aprendo numerosi squarci nella flaccida massa del mostro e ustionandone la pelle verdastra. Ad ogni fendente corrispondeva uno schizzo di putrido sangue nero. Tuttavia, seppur dolorante, la creatura era dotata di forza e resistenza sovraumane, mentre il suo avversario iniziava a stancarsi. I suoi muscoli erano in fiamme, presto non sarebbe più riuscito ad evitare con salti e piroette i colpi che gli piovevano addosso. Il tanfo era divenuto insopportabile, più di una volta dovette frenare violenti conati di vomito. Non avrebbe resistito a lungo.

Un nodoso pugno lo costrinse in ginocchio, facendogli perdere la presa sull’improvvisata torcia. Un istante dopo, si ritrovò riverso al suolo, una colossale zampa gli schiacciava il petto esercitando un’immane pressione. Ancora pochi istanti, e la gabbia toracica sarebbe collassata su se stessa. La sua vita sarebbe terminata in un’esplosione purpurea. Su di lui torreggiava l’abbietto muso della bestia, nello sguardo una luce di trionfo. Gli ruggì in faccia, investendolo con un alito che odorava di ossario e corruzione. Seppe di avere un’unica possibilità.

Raccolto del catarro in gola, lo sputò in occhio della creatura. Questa ebbe un unico, fatale momento di confusione, durante il quale allentò la presa sul cavaliere. Ser Bain si sottrasse all’artiglio, rotolò su un fianco e, non appena le fauci del mostro calarono su di lui, vi piantò la spada. La lama si fece strada nel disgustoso cranio, affondando nel cervello in un’eruzione di umore nauseabondo. L’espressione di abominevole gioia dell’essere si spense in un mugolio inebetito.

Ser Bain attese che la turpe massa gli crollasse addosso, seppellendolo sotto di se, ma ciò non accadde. Scostando dal volto il braccio con cui si era riparato, scoprì come la bestia fosse semplicemente svanita nel nulla. Del cadavere non vi era traccia. Al suo posto, in mezzo ad un nido di felci e foglie calpestate, si trovava il corpo di una fanciulla. Temendo una qualche nuova trappola, le strisciò vicino con l’arma in pugno, ma quando le fu accanto ogni dubbio svanì dalla sua mente.

La giovane era profondamente addormentata, il sereno e angelico viso circondato da una corvina e lussureggiante chioma. Vestiva solo una leggera tunica che ne esaltava le forme sottostanti. Il cavaliere spostò lo sguardo dalla ragazza alla spada benedetta, chiedendosi quale portento si fosse verificato sotto i suoi occhi, ma non trovò alcuna risposta ai suoi interrogativi. L’unica spiegazione che seppe darsi fu si dovesse trattare di stregoneria, di questo ne era certo. Persino il cavallo si era improvvisamente quietato, come se l’orrore a cui aveva appena assistito fosse stato solo un incubo da cui si era appena svegliato.

Distese sulla donna una coperta da viaggio, avvicinandosi quindi al fuoco per cercare di calmare la mente ancora scossa e riflettere sul da farsi. Il silenzio della notte e la nebbia calarono nuovamente sulla tetra foresta.


Circola una stana storia riguardante un monastero sperduto in una delle contrade più selvagge del regno. Una mattina, nella fredda ora che precedeva il sorgere del sole, le sacerdotesse che lo abitavano udirono qualcuno bussare con violenza alle porte del santuario, invocando a gran voce il loro aiuto. Temendo un inganno da parte di forze malefiche o di qualche malintenzionato, le vestali si munirono di armi e simboli sacri per scongiurare qualsiasi evenienza, raccandosi ad accogliere lo sconosciuto viaggiatore. Tuttavia, spalancato l’uscio non videro nessuno, se non una graziosa fanciulla avvolta in un logoro mantello, la quale giaceva addormentata dinanzi l’ingresso.

Accertatesi non si trattasse di un sortilegio, e mosse da grande pietà dalla dolorosa bellezza di quella delicata apparizione, oramai sicure si trattasse di un’orfana abbandonata, esse accolsero la giovane fra loro, curandola, istruendola e allevandola.

Nessuna di loro seppe mai come e perché ella giunse lì. Nemmeno la ragazza rammentava nulla del suo passato, quasi fosse affetta da una grave amnesia ma, quella mattina, un paio di sacerdotesse si dissero sicure di aver udito provenire dalla strada il secco fragore di zoccoli che si allontanavano al galoppo nell’alba imminente.


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