All’interno dei già ampiamente bistrattati programmi di storia delle superiori, ogni epoca presa in considerazione presenta una serie di episodi trattati in modo ancor più superficiale, rendendoli patetici stereotipi. Potrei citare una sterminata serie di questi casi, ma essendo un antichista mi soffermerò su un avvenimento ben preciso, in se unico e particolare, di primaria importanza se collocato nel complesso meccanismo che portò alla caduta e al tempo stesso all’ascesa di due modelli statali diversi fra loro, uno basato sulla condivisione del potere all'interno di un’elite e l’altro sull’accentramento dell’agire politico in un unico individuo. Sto parlando della tanto famosa quanto ignorata Congiura di Catilina.
L’episodio, riassunto come a molti garba impiegare le proprie conoscenze storiche quali pregiati soprammobili da salotto, è il seguente: verso la fine del periodo tardo-repubblicano, un patrizio decaduto e disperato, Lucio Sergio Catilina, tesse una congiura ai danni del Senato per impadronirsi del potere. Scoperto e costretto a fuggire da Roma, arma un esercito di reietti con cui affronta a Pistoia le legioni romane inviate a fermarlo, venendo trucidato con tutti i suoi sostenitori e successivamente relegato nell’ignominia.
Gli accadimenti non sono così lineari come certuni vogliono far credere, tutt’altro. La visione semplicistica della storia, che ne fa una disciplina puramente annalistica, è una concezione errata, lontanissima dal vero, eppure ancora molto in voga perché consente di ridurre il tutto ad una serie di date da mandare a memoria, aiutando ad elaborare una concatenazione di causa – effetto immediata ed elementare, sacrificando il processo, il vero protagonista, in funzione del fatto. I numeri sono di certo importanti, ma non sono i soli ad esserlo. Un fatto è una fotografia, oltre i cui margini invisibili esistono una serie di elaborazioni che sfociano nell’episodio stesso.
L’anno è il 63 a.C. Roma è padrona indiscussa del bacino del Mediterraneo, ma già da tempo soffre di una gravissima crisi sociale, politica ed economica. L’unica altra potenza che le contendeva l’egemonia, Cartagine, è stata sconfitta segnandone un suo definitivo declino . Ad oriente, i regni ellenistici vengono rapidamente conquistati, e l’ultimo, quello dei Tolomei d’Egitto, che ancora offre una certa resistenza, soccomberà trentadue anni dopo. Le immani ricchezze trafugate da queste lontane contrade e fatte convergere presso la capitale arricchiscono le casse statali e foraggiano l’inarrestabile macchina bellica, mai sazia di nuove conquiste. Il II secolo a.C segna l’apogeo della Roma Repubblicana, ma al tempo stesso il suo tracollo.
Il sistema di municipi, colonie e città federate che aveva permesso all’Urbe di espandersi lungo tutta la penisola si rivela inadatto quando si tratta di amministrare un dominio che dalla Spagna giunge sino alla Siria. I territori vengono perciò suddivisi in provincie, ognuna delle quali affidate alle figure dei pretori e dei propretori, incaricati di governarle coadiuvati nelle loro funzioni dall’emergente classe degli equites, gli homini novi. Gli episodi di corruzione, malversazione e violenza aumentano in modo esponenziale.
Gli stessi patrizi, già proprietari di immensi latifondi, incrementano le loro rendite impiegando prestanome che si occupino per loro di avviare imprese commerciali, una fonte di reddito considerata disdicevole per un appartenente alla classe aristocratica.
A questo si aggiunge l’enorme massa di schiavi che vengono deportati dalle provincie verso il cuore della Repubblica, sostituendo i contadini nei campi delle grandi proprietà e mettendo in difficoltà i piccoli proprietari terrieri, che non possono competere contro queste mastodontiche aziende e che spesso si vedono confiscate le terre per essere assegnate ai veterani in congedo. Questi diseredati vanno perciò ad incrementare la già numerosa plebe urbana, quella di Roma, che vive di elargizioni monetarie e annonarie offerte dai politici affinchè il popolo li elegga presso le cariche che intendono ricoprire. Le ricchezze qui impiegate sono spesso ottenute mediante i metodi illeciti sopracitati, disegnando perciò un pericoloso circolo vizioso che esploderà in tutta la sua gravosa problematicità all’alba del I secolo a.C.
All’interno di questo quadro sempre più instabile, il ceto equestre si impone quale nuova forza sullo scenario politico romano, arricchitosi prima grazie al supporto prestato in termini di denaro, salmerie e mezzi all’espansione militare, e successivamente vedendosi corrisposto quale premio l’assegnazione degli appalti per la riscossione delle tasse e della direzione delle provincie sotto i pretori. Ruberie e depredazioni sottaciute fanno la fortuna di questi individui, che ad un fondamentale funzione economica vogliono vedersi corrisposto un ruolo decisionale nell’aula del Senato.
La secolare dicotomia che vedeva contrapposti fra loro i patrizi e i plebei muta d’assetto, facendo ora scontrare i senatori con gli equites. Si affermano e si susseguono quindi una serie di individui che raccolgono lo stendardo della rispettiva fazione, affrontandosi in modo feroce per abbattere il rispettivo avversario, in una spasmodica lotta per la conquista per il potere che terminerà solo con la fine della stessa Repubblica. Inizia il lungo periodo delle guerre civili, l’incubo ricorrente della romanità che si materializzerà più volte anche durante l’età imperiale.
Dopo i sanguinosi eventi delle Guerre Sociali e della Terza Guerra Servile, l’Italia e il mondo latino sono investiti dal primo conflitto che vide confrontarsi fra loro i romani quando Silla e Mario si contesero la supremazia politica in un lasso di tempo in cui si susseguirono confische ed omicidi autorizzati dall’autorità centrale in seguito all’emanazione delle liste di proscrizione. Dopo il 79 a.C., anno in cui Silla rinuncia al suo incarico di dictator, si credette che l’ordine fosse stato infine ristabilito, un’illusione diffusa soprattutto presso la componente aristocratica del Senato.
La fonte più attendibile riguardo gli eventi succedutisi fra l’ottobre del 63 a.C. e il gennaio del 62 a.C è di certo l’opera storiografica nota come De Catilinae coniuratione o La congiura di Catilina, stilata dallo storico Gaio Crispo Sallustio fra il 43 e il 40 a.C., forse ispirato anche dal particolare momento storico in cui si trovava allora, quello immediatamente successivo alla morte di Cesare e alla creazione del Secondo Triumvirato. Non è questa la sede per operare un commento critico alla monografia, ma basti sapere che, dopo una sua attenta lettura, emerge quello che può essere considerato un affresco abbastanza fedele della realtà storica dei fatti. Ritiratosi a vita privata poiché nauseato dalla piega che la politica aveva assunto in quegli anni, Sallustio cercò di indagare in modo critico e super partes le motivazioni che portarono allo svolgersi della vicenda grazie anche all’attenta analisi psicologica dei suoi protagonisti. Per questo motivo, l’elaborato può essere considerato un documento affidabile su cui basare le proprie riflessioni.
Il capitolo V della Congiura è dedicato al ritratto di Catilina:
“[… ]di nobile stirpe, fu d’ingegno vivace e corpo vigoroso, ma d’animo perverso e depravato […]. Aveva un fisico incredibilmente resistente ai digiuni, al freddo, alle veglie, uno spirito intrepido, subdolo, incostante, abile a simulare e dissimulare. Avido dell’altrui, prodigo del suo; ardente nelle passioni, non privo d’eloquenza, ma di poco giudizio, un animo sfrenato, sempre teso a cose smisurate, incredibili, estreme. […] quell’animo impavido era turbato ogni giorno di più dalla penuria di denaro e cattiva coscienza, rese più gravi dalle male abitudini cui ho accennato. Lo spingeva inoltre su quella china la corruzione della città, nella quale imperavano due vizi diversi ma parimenti funesti, lusso e cupidigia.”
A questa prima descrizione segue una lunga digressione riguardo come Roma e il suo popolo, raggiunto l’apice del suo successo, fossero precipitati in un baratro di turpitudini derivanti dall’improvviso agio conquistato, che trasformò gli abitanti della capitale in esseri oziosi e opulenti. La narrazione riguardante Catilina e le sue nefandezze riprende nel capitolo XIV, proseguendo poi sino all’ XVII:
“(XIV) In una città così grande e così corrotta, non era stato difficile a Catilina raccogliere attorno tutti i dissipati e i criminali e farne, si può dire, la sua guardia del corpo. […] Cercava, più di tutto, d’attirare i giovani. Le loro menti ancora informi e malleabili cadevano facilmente nella pania; ed egli assecondava le loro passioni […]. (XV) […] il suo animo scellerato [… ]non trovava riposo nel sonno né nella veglia, a tal punto i rimorsi lo tormentavano. Pallido in volto, lo sguardo torvo, il passo ora affrettato ora lento, tutto nell’aspetto e nel contegno rivelava la perversità del cuore. (XVI) Sicuro di amici e complici di quella risma […] concepì il disegno di impadronirsi della repubblica […].
Leggendo queste pagine, emerge una concezione certamente negativa del personaggio, un individuo subdolo la cui malvagia magniloquenza è tale da contagiare tutti coloro che lo circondano. Un uomo disposto a tutto pur di conquistare il potere assoluto, anche annegare la Repubblica nel sangue dei suoi stessi cittadini.
Da Catilina sarebbe dunque naturale aspettarsi meschinità e codardia, ma ecco che Sallustio interviene per riabilitarne la figura, riportando, nel capitolo LVIII, l’esortazione che il congiurato fa ai suoi uomini quando, intrappolato a Pistoia, sa come sia giunta la fine per il suo folle sogno:
“So bene, soldati, che le parole non infondo coraggio né fanno di un vile un eroe [...].In guerra si manifesta il coraggio che ciascuno possiede per natura o per la sua formazione […]. Io vi ho convocati soltanto per darvi qualche consiglio ed esporvi la ragioni della mia decisione. […] Ci sbarrano la strada due eserciti […] in qualsiasi direzione si voglia andare , si deve aprirsi la strada con il ferro. Per questa ragione vi invito ad essere forti e risoluti […] il vostro braccio porta la ricchezza, l’onore, la gloria e soprattutto la libertà e la patria. […] Su i nostri nemici, soldati, non pesa come su di noi la necessità […]. Siate dunque più arditi all’attacco, memori della virtù antica; avremmo potuto trascorrere la vita ignominiosamente in esilio […]Ma situazioni come queste sono sembrate vergognose, intollerabili a veri uomini […]. […] l’audacia è la miglior difesa. […]. E se la fortuna non vorrà favorire il nostro valore, badate a non cadere invendicati […]. E se lasciate ai nemici la vittoria, che sia pagata a prezzo di lutti e sangue.”
A questo lungo e accorato discorso carico di pathos, Catilina fa seguire, all’interno del capitolo LX, delle azioni che fungano da esempio virtuoso per coloro che lo seguono, ispirandoli e spronandoli anche nel momento più disperato:
“[…] Lo scontro è violentissimo. Catilina […] si prodiga in prima linea, soccorre quelli che si trovano in difficoltà, sostituisce i feriti con uomini sani, […], adempie alle funzioni di valoroso soldato e di comandante efficientissimo. […] come vede i suoi in rotta e si trova solo con un pugno d’uomini, memore delle sua stirpe e dell’onore di un tempo, si getta nel folto della mischia e qui cade combattendo."
La battaglia è un massacro, come rivela il capitolo LXI, l’ultimo dell’opera, ma anche in punto di morte, i congiurati, e soprattutto il loro, capo mantengono vivi l’ardore delle emozioni, giuste o sbagliate che fossero, che animarono la loro esistenza:
“[…] coprivan col corpo il posto di combattimento che avevano occupato da vivi. […] Catilina fu trovato lontano dai suoi, in mezzo ai cadaveri nemici. Respirava ancora un poco; nel volto, l’indomita fierezza che aveva da vivo.”
Sallustio offre un’ampia e completa visione degli eventi narrati, dimostrando di essersi accuratamente informato e documentato riguardo un episodio che accadde durante la sua gioventù. Ciò è comprovato dal ritratto psicologico dei personaggi effettuato, Catilina in primis, ma anche di altre figure di spicco, quali Cesare, Catone Uticense e Cicerone, e dai discorsi da essi pronunciati. Il racconto risulta scorrevole, privo di lacune, anzi incalzante, denotando la capacità dell’autore di dirimersi all’interno di una fitta selva di accadimenti complessi e strettamente collegati fra loro. All’analisi e alla costruzione di un impianto narrativo godibile non corrisponde tuttavia la ricerca delle motivazioni del tutto. O per meglio dire, esiste, ma è implicita, accennata fra le righe.
Sallustio, così come tutti gli storiografi classici, scrive per un pubblico di suoi contemporanei, ed è perciò perfettamente comprensibile che alcuni elementi che noi considereremmo fondamentali per la comprensione di un testo, manchino in un trattato di epoca antica, questo perché noti ai suoi contemporanei. Quelli che noi crediamo passaggi di primaria importanza spesso non compaiono perché ritenuti superflui, assodati. Il De Catilinae era rivolto alla generazione che aveva vissuto la vicenda o che ne aveva sentito parlare grazie a testimonianze dirette. Ribadire determinati concetti avrebbe solo ed inutilmente appesantito la narrazione.
Catilina era di certo frutto del suo tempo, il simbolo di una generazione che ancora ricordava le proprie origini aristocratiche, ma che nonostante ciò era caduta preda degli insidiosi vizi che minavano l’integrità morale della Repubblica stessa. La quantità di difetti attribuiti al congiurato ne delinea forse un ritratto troppo idealizzato, quasi ridondante, ma riflette bene la condizione dell’uomo romano del tempo, a qualunque estrazione sociale egli appartenesse. La ricchezza derivante dalle conquiste si dimostrò un’arma a doppio taglio, rendendo molle l’integerrimo costume latino, fondato sul rispetto delle tradizioni, corrompendolo.
La sordida cupidigia di cui era preda Roma fece strage fra i giovani e i manchevoli di volontà, spingendoli a sperperare i patrimoni accumulati dai loro predecessori in futili ed egoistiche attrattive mondane. Anche la famiglia di un altro grande personaggio politico, Giulio Cesare, al tempo era ridotta sul lastrico, costretta a vivere in una casa nel quartiere della Suburra, uno dei più malfamati della città.
Se tuttavia Cesare conquistò il suo diritto d’accesso agli ambienti politici mediante una spregiudicata campagna elettorale finanziata mediante l’indebitamento con uno stuolo di creditori, Catilina non tentò un simile azzardo, forse per orgoglio oppure perché non volle dissanguare ulteriormente le sue già risicate finanze. Alle elezioni per il consolato per l’anno 65 a.C. puntò sulla sua antica e prestigiosa ascendenza per ottenere la magistratura, ma le alte sfere che detenevano tutto il potere decisero di ostracizzarlo poiché patrizio decaduto, accusandolo di profitti illeciti ottenuti durate il suo propretorato in Africa.
Si trattò ovviamente di una calunnia ipocrita, dato che gli esponenti di quelle poche famiglie che monopolizzavano la politica romana, una sorta di oligarchia dentro l’oligarchia, si erano arricchiti anch’essi mediante malversazione e corruzione. Ciò che veramente contava era mantenere integra questa èlite nell’èlite, mondandola di quegli elementi non ritenuti adatti ad accedere a questa cerchia privilegiata.
L’odio e l’invidia nei confronti del Senato dovettero perciò iniziare ad offuscare la mente di Catilina, che nel 65 a.C. partecipò ad una prima congiura, a detta di qualcuno ordita da Cesare e Pompeo, una supposizione in realtà mai avvallata da fonti attendibili e che perciò non può essere considerata valida. L’anno seguente, il 64 a.C., Catilina ripropose la sua candidatura al consolato, preparando nel frattempo un piano che sarebbe riuscito a consegnare nelle sue mani la tanto agognata carica, ma anche questa volta i suoi intenti vennero sventati da una fuga di notizie che attribuì la vittoria all’ormai celebre Cicerone, un municipale di rango equestre.
Fu questa la goccia che con tutta probabilità fece traboccare il vaso. Non tanto le disfatte elettorali subite, e nemmeno il ripetuto fallimento delle sue trame. Furono solo elementi che portarono all’esplosione della polveriera, la miccia innescata dalla cognizione di essere stato sconfitto da un individuo di estrazione sociale inferiore alla sua, e al tempo stesso dalla consapevolezza di come il nome della sua famiglia, e quindi delle tradizioni stesse, il suo unico pregio e inestimabile ricchezza, non contasse più nulla in un mondo che era radicalmente cambiato.
Ecco allora che Catilina assume i connotati di quello che potrebbe essere definito un rivoluzionario, inteso nel senso di un uomo che lotta per sovvertire l’ordine costituito, né per migliorarlo né tantomeno per peggiorarlo, bensì per mutarlo completamente distruggendo il modello precedente. La rabbia, la frustrazione e la delusione furono le motivazioni che spinsero Catilina ad agire, radunando sotto il suo vessillo quella parte di Stato che da tempo veniva ignorata ed estromessa dai giochi politici fra cavalieri e patrizi, ovvero la plebe e i diseredati.
Sino allora, lo scontro aveva coinvolto le personalità di spicco dell’oligarchia senatoria insieme ai loro sostenitori, che si trattasse di singoli individui oppure di eserciti legati al carisma e alla figura del loro comandante. Nel 63 a.C., invece, quella di Catilina diventa una sommossa popolare che mira ad abbattere un potere dispotico e ipocrita, formato da personalità che, in nome di antichi valori che nemmeno loro avvertivano più come propri, è disposta a tutto pur di preservare il potere ottenuto. Cicerone stesso farà giustiziare di notte e in segreto dei congiurati catturati senza sottoporli a giusto processo per incrementare il proprio prestigio agli occhi del Senato, una decisione che in seguito gli costerà l’esilio.
Il raffazzonato esercito che affrontò le legioni di Roma sul campo di Pistoia, pur per la maggior parte animato da volontà rapaci e predatorie, rappresenta perfettamente il prezzo pagato per ottenere il benestare ostentato dalle classi abbienti, un’accozzaglia di disperati e reietti che simboleggiano il fortissimo degrado sociale intercorso durante il periodo tardo–repubblicano, un abbruttimento che accomuna e unisce plebe urbana, veterani non pagati, contadini espropriati delle terre e nobili decaduti preda delle loro più bestiali pulsioni, rimasti orfani di una virtù che non seppe far fronte all’improvvisa, straripante, sfrenata e attraente opulenza conquistata da Roma. Una marmaglia tanto diversa quanto compatta, che sognava un riscatto attraverso la distruzione di quello stesso Stato che aveva contribuito a metterli in ginocchio.
Nel massacro che ne scaturì in seguito si avverte il tragico paradosso che attraversa la figura di Catilina. Congiurato ed eversore, nemico della Repubblica, eppure fino all’ultimo custode memore e fiero della tradizione e della morale del suo rango, di quei valori che avevano contribuito a rendere Roma grande, non ultimo quello di sacrificare la vita per i propri ideali, di non arretrare dinanzi all’ineluttabile sconfitta onde evitare l’eterna ignominia. Forse non un eroe repubblicano in strictu sensu, ma comunque un personaggio cardine, utile a comprendere la profonda e devastante crisi dell’oligarchia romana.
I senatori non lo sapevano, o più probabilmente lo intuivano, tentando tuttavia di negare l’evidenza conservando una patina d’integrità politica, ma la Repubblica era giunta al suo tramonto.
Comments