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La mediocritas di Orazio e la nostra società: mondi troppi distanti?

Immagine del redattore: Davide ZennaroDavide Zennaro

“L’uomo non è più ciò che è, ma ciò che appare”. In questa breve frase può essere condensata la concezione dell’uomo moderno, essere variegato, sfaccettato, frammentato interiormente, non è “uno” ma “centomila”, riprendendo il titolo di un famoso romanzo di Pirandello, uno dei principali autori contemporanei che si è calato nell’analisi della psiche umana. Ne consegue che con la negazione dell’unitarietà dell’interiorità dell’uomo, la base dell’esistenza umana diventa l’apparire, “bucare lo schermo”, per rubare un’espressione televisiva. Ecco, l’ingresso in maniera sempre più invasiva e pregnante dei mass media e dei social network nella nostra vita hanno accentuato ancor di più la fondamentale importanza del “sembrare”. Uno spunto: quando mai in una foto su Instagram avete visto una persona piangere, o non sorridere, o sfogare la propria rabbia urlando? Sui social si appare sempre in momenti felici, in cui si compiono attività tramite cui si cerca il consenso degli altri. In quest’ottica del pensare comune la mediocritas, la sobrietà, la medietà, la mitezza e la ricerca del “giusto mezzo” sono quanto di più anacronistico possibile, in una società dominata dal trionfo dell’apparenza. Come poter uscire, emergere dalle fauci di un’esistenza vacua, dominata dal pensare comune, in cui possa trovare spazio una riflessione su ciò che siamo realmente, sulle sfaccettature del nostro animo, sul come poter ricomporre la frammentazione del nostro io e sul come non farci inghiottire dalla vuota apparenza? Ecco che qui entra prepotentemente in gioco uno dei poeti più duttili e apprezzati della letteratura latina, Orazio.

La sua riflessione sull’esistenza è un antidoto al vuoto “farsi notare”, vaccino per allontanarsi dal frastuono del pensiero comune e per ricavare del tempo per sé stessi, per essere ciò che si è.


Carmina I 38

Persicos odi, puer, apparatus,

displicent nexae philyra coronae,

mitte sectari, rosa quo locorum

sera moretur.

Simplici myrto nihil adlabores

sedulus, curo: neque te ministrum

dedecet myrtus neque me sub arta

vite bibentem.


“Odio, ragazzo, il lusso persiano e non mi piacciono le corone intrecciate di tiglio, smetti di cercare dove indugi l'ultima rosa. Non mi importa che t'affanni premuroso: il mirto ben si addice a te che servi in tavola e a me che bevo sotto un fitto pergolato”


Carmina I 20

Vile potabis modicis Sabinum

cantharis Graeca quod ego ipse testa

conditum levi datus in theatro

cum tibi plausus,

5 clare Maecenas eques, ut paterni

fluminis ripae simul et iocosa

redderet laudes tibi Vaticani

montis imago.

Caecubum et prelo domitam Caleno

10 tu bibes uvam: mea nec Falernae

temperant vites neque Formiani

pocula colles.


“Berrai un vino sabino di poco valore in semplici boccali, quel vino che in un’anfora greca ho io stesso sigillato e imbottigliato, quando ti fu dato in teatro un applauso, caro cavaliere Mecenate, tale che le rive del fiume dei tuoi avi e la festosa eco del colle Vaticano ti rendevano le lodi. Berrai Cecubo e uva spremuta con torchio caleno; né le mie tazze sono mitigate da viti di Falerno né dai colli di Formia.”


Secondo Orazio, soltanto chi arriva ad apprezzare la semplicità, a essere capace di godere delle gioie più intime, come gustare del vino con la compagnia degli amici più stretti, a misurare le passioni e i desideri, potrà schivare le influenze beffarde della realtà esterna, con condiziona e che impedisce all’uomo ul raggiungimento di un equilibrio e di una libertà interiore. Questo rende l’uomo felice, la consapevolezza dei propri limiti e l’accontentarsi di ciò che la sorte gli assegna. Una vita semplice e consapevole, dunque, miraggio della società attuale. Voce nel deserto è chi predica questi ideali, quanto mai anacronistici nella realtà dei nostri giorni. Ma di irrealizzabile, in questo mondo rammentato e multiforme, non c’è nulla, quindi perché no anche l’”aurea mediocritas” oraziana?

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