Era buio, ma la galleria sarebbe stata presto invasa dalla luce e dai suoni. Li avvertiva provenire oltre i monumentali cancelli che sbarravano l’ingresso del passaggio, un sordo e pulsante ruggito. L’oscurità lo aiutava a concentrarsi, gli permetteva di calarsi nella sua natura omicida, a completare la trasformazione. Il nero che lo avvolgeva e lo circondava come un fetido sudario di morte sarebbe divenuto un oceano scarlatto.
Le tenebre gli consentivano di immergersi nella torbida melma della memoria, ogni anno più amorfa e inconsistente, sino a quando sarebbe stata erasa dal vento del tempo. Rammentava un passato – decenni, secoli, millenni prima? Chi poteva dirlo, era difficile e fisicamente doloroso collocare gli eventi in un contesto.
Ricordava un padre, ucciso durante una delle lotte fra i clan delle pianure, e una madre, ma i loro volti erano sbiaditi, quasi li stesse contemplando attraverso occhi affetti da una nebulosa cataratta. Non ricordava il suo nome, quello vero, quello affidatogli alla nascita, ma sapeva di essere stato l’ultimo di una numerosa figliata. Venduto per pochi spiccioli ad un mercante di schiavi che cercava merce fresca fra le tribù delle piane venusiane.
Il suo primo padrone era stato un rivoltante ciccione che puzzava di sudore rancido. Adorava picchiare i suoi investimenti e gli piacevano i ragazzini. Un maiale vomitevole. Lui era gracile e brutto, non meritevole di certe attenzioni, ma dotato di una forza prodigiosa nonostante il fisico magro e l’aspetto indifeso.
Ricordava il suo primo omicidio, il primo di una lunga serie. Il sangue versato tracciava un’indelebile e nauseabonda scia attraverso la sua mente menomata. Aveva massacrato un altro schiavo che aveva cercato di rubargli del cibo, spappolandogli la testa con un grosso sasso. Un brivido di euforia gli aveva attraversato il corpo alla vista del sangue e delle cervella. Un episodio sufficiente perché il padrone capisse di avere fra le mani un talento. Grezzo, ma pur sempre talento. Era stato venduto nuovamente, questa volta ad un prezzo superiore, ad un cercatore di combattenti degli Akwa, una delle famiglie dominavano Venere.
La notte prima del trasferimento, si era intrufolato nella tenda del padrone e lo aveva ucciso con una garrotta da lui confezionata, un filo di ferro seghettato. Il grassone non aveva avuto il tempo di chiedere aiuto, la forza impiegata era stata tale da tranciare la gola della vittima tramite un singolo, deciso strattone. L’arma si era bloccata quando aveva incontrato le vertebre. Era fuggito dai sontuosi alloggi mentre il corpo si accasciava al suolo, riverso in una pozza di sangue. Odiato da tutti, il posto del mercante era stato occupato da uno degli ambiziosi sottoposti
Giunto presso la fortezza della casata, era stato affidato a quello che, da allora, aveva considerato come il suo unico e vero padre. Borghaar Sharkur, il vecchio ma energico maestro d’arme al servizio degli Akwa, incaricato di addestrare i gladiatori impiegati negli spettacoli organizzati dai signori del feudo. Sharkur era un uomo alto e massiccio, sulla cui pelle d’ebano risaltavano la barba e i capelli, bianchi e corti. Il suo corpo era costellato da innumerevoli cicatrici, e i suoi occhi, scuri e densi, erano pozze d’ombra insondabili. Aveva riconosciuto in lui un leader da imitare e seguire, e nonostante i bestiali addestramenti a cui li sottoponeva, era sicuro che il maestro d’arme, a modo suo, li amasse come figli. Sotto la sua guida, era diventato massiccio, agile, veloce. E soprattutto brutale.
Poi, era giunto il battesimo del fuoco. Il giorno in cui aveva fatto il suo ingresso in un’arena gladiatoria. Il ricordo gli trasmise una scarica di adrenalina lungo la schiena e nelle membra. Il cuore cominciò a pompare sangue più velocemente, rombandogli nelle orecchie simile ad un gigantesco tamburo tribale. Intorno al suo campo visivo iniziò ad addensarsi una nebbiolina rossastra. Ringhiò e sbuffò.
Come in quel momento, si era trovato in una galleria buia, ma non da solo. Con lui c’erano gli schiavi con cui si era allenato. Nel cunicolo si era sparso un odore inebriante, un misto di sudore e urina. Un afrore che tradiva eccitazione e angoscia. Aveva udito numerosi borbottii, forse parole di incoraggiamento o preghiere rivolte a dei che, nella migliore delle ipotesi, non avrebbero ascoltato i loro fedeli. Aveva avuto paura? No, non lo credeva. Mai come allora era stato conscio di sé stesso. Sapeva di essere stato felice e galvanizzato.
Le porte che avevano sbarrato la galleria si erano spalancate, accecandoli. Lo squillo di una tromba aveva annunciato l’ingresso nell’arena. Non ricordava molto del primo anfiteatro in cui si era esibito, ma rammentava l’esaltazione provata non appena erano stati accolti dalle grida di giubilo dei presenti. Erano centinaia, forse migliaia. Si era equipaggiato con due asce gemelle dal manico corto ma dalla testa larga e dal filo lungo, e oltre ad un elmo crestato che gli copriva guance e fronte, non indossava alcuna protezione
Il suo gruppo si era scontrato con altri manipoli di schiavi che non aveva mai visto e di cui non gliene era importato nulla. Una profonda riflessione, della durata di un millesimo di secondo, era scaturita in lui non appena aveva eliminato il primo avversario, decapitandolo e lasciando che il sangue gli pitturasse il volto. Aveva compreso quello fosse il suo destino. Non tanto deliziare anonimi spettatori con mirabolanti esecuzioni, quanto stroncare vite. Nulla lo appagava quanto combattere e uccidere. Forse era pazzo, ma era nato ed era stato plasmato per quello.
Aveva continuato a massacrare, macellare e mutilare fino a quando ogni nemico non era stato abbattuto. Dei suoi compagni di addestramento, solo tre si erano salvati, i loro volti e nomi una pallida ombra nella memoria mutilata. L’ultimo ricordo appartenente a quella giornata era stata la sua incoronazione a Campione. Reverork Akwa, signore della casata, gli aveva cinto il capo con la corona d’alloro. Ricevere una simile onorificenza lo aveva appena sfiorato, Quello che voleva, la sola cosa che desiderava, era uccidere. Ancora, ancora, e ancora.
Da quel momento in poi, si era trattato di una veloce e sanguinosa scalata verso il successo. Lui e i suoi tre compagni si erano scavati un solco purpureo attraverso tutti gli incontri organizzati dagli Akwa, massacrando centinaia di gladiatori. Come compenso avevano ricevuto tutti gli agi di cui erano meritevoli solo i grandi atleti dei giochi, ovvero alloggi, beni di lussi e una servitù che soddisfacesse ogni loro ordine. Rimanevano comunque schiavi, legati alla volontà dei loro padroni.
Si erano susseguiti un numero infinito di combattimenti, mattanze di cui conservava solo un vago ricordo, ma di cui rammentava l’euforia e l’esaltazione provata. Il suo gruppo era stato acquistato in blocco dal Barone Mi’hataal Maxwell, il più potente aristocratico della regione di Ishtar Terra, ma la loro permanenza presso lui era durata poco. Divennero esclusiva proprietà del famoso Principe Turmetar Lavinia, braccio destro del Governatore Planetario e secondo uomo più potente di Venere. Le sue enormi e infinite ricchezze gli permettevano di organizzare giochi così spettacolari da richiamare gente proveniente da tutto il Sistema Solare.
Su quel campo di battaglia avevano dato il meglio di loro stessi, prevalendo in qualsiasi sfida. Avevano sterminato orde di urlanti tecnobarbari, la loro stessa gente, senza battere ciglio. Avevano cancellato un plotone di Immortali Venusiani, gli schiavi ex gladiatori che fungevano da guardia del corpo del Principe. Erano riusciti ad abbattere una Machina Mortis Inferior di un nobile decaduto.
Infine, era giunto il loro millesimo incontro, oltre il quale, in caso di vittoria, v’era la possibilità di essere affrancati dalla propria condizione servile o continuare a combattere sino alla fine dei propri giorni. Erano diventati così famosi che i loro nomi venivano osannati in tutta Venere, ululati dalle masse, e molte persone natie di altri pianeti giungevano li solo per vedere in azione la Tetrarchia Omicida, come erano stati soprannominati.
Era stato l’evento per cui erano stati preparati sin dagli addestramenti con Sharkur, l’epitome di ogni combattimento, la battaglia più importante della loro vita. Per l’occasione, Lavinia aveva acquistato un mastodontico e terrificante Urodrago di Zeta Reticoli, un titanico rettile noto per la sua ferocia. Era stato uno scontro veloce e brutale, ma gli spettatori ne erano rimasti estasiati.
I tre gladiatori con cui giostrava da anni erano riusciti infliggere alcune terribili ferite alla bestia, ma erano stati trucidati e fatti a pezzi. La loro sorte lo aveva appena sfiorato. Rimasto solo, sapeva avrebbe dovuto agire d’astuzia per abbattere il mostro e non farsi divorare, triturato da una tripla fila di senti seghettati e appuntiti. Dopo aver fatto una finta, mossa a cui il mostro aveva abboccato, era riuscito ad aggrapparsi al dorso squamoso. Avvicinatosi alla massiccia testa, aveva calato entrambe le asce sul capo della creatura, spaccandogli il cranio e inondandosi il corpo con un torrente di sangue nero e nauseabondo. Non si era fermato. Aveva continuato ad affondare le lame fino a quando aveva raggiunto il cervello dell’Urodrago, facendolo a pezzi con le sue stesse emani, colto da una furia e una gioia irrefrenabili.
Dopo una serie di violenti sussulti, il rettile si era abbattuto al suolo con un sordo tonfo. Il silenzio venutosi a creare dopo l’impeccabile esecuzione era stato interrotto dal battito di un singolo paio di mani, il suono amplificato dall’assenza di altri rumori e dalla struttura dell’arena. Si trattava del Principe. Un secondo più tardi, lo stadio era stato squarciato da un boato assordante. La folla gli aveva reso omaggio, e lui lo aveva accolto replicando con un bestiale ruggito.
Più tardi, quello stesso giorno, rammentava di essere stato condotto al cospetto di Turmetar Lavinia. Era uno dei pochi ricordi che conservava perfettamente, quasi fosse stato racchiuso all’interno di un purissimo cristallo. Il nobile lo aveva ricevuto in una spoglia stanza dalle pareti di metallo. Era un uomo alto, dai tratti delicati, sbarbato e con i lunghi capelli corvini raccolti in un’elaborata coda così come imponeva il costume venusiano.
Aveva deciso di rimanere un gladiatore. Sarebbe potuto diventare un uomo libero, ma cosa ne avrebbe fatto di un simile dono un individuo come lui? Un macellaio non poteva abitare nel mondo civilizzato. Non lui, abituato a convivere con la violenza e il sangue sin da bambino. Le unica realtà che conosceva erano quella dell’arena, del campo di addestramento e degli alloggi fra uno scontro e l’altro. Nemmeno della fama avrebbe saputo cosa farsene. No, per quelli come lui non c’era mai stata scelta.
Quello che non sapeva era cosa lo avrebbe atteso dopo. Era stato sedato a tradimento. Per quanto avesse tentato di resistere, alla fine si era schiantato al suolo privo di sensi. Si era risvegliato in una sala operatoria, legato ad un letto con quelli che gli erano parsi lacci e catene. Non poteva saperlo, il suo intero campo visivo era stato invaso da una luce abbacinante puntata dritta sugli occhi. Aveva sentito freddo e caldo alla testa allo stesso tempo.
Improvvisamente, un dolore atroce si era propagato in tutto il cranio, una sensazione terrificante che trascendeva qualsiasi umana comprensione. Era stato come se gli avessero piantato un ago nel cervello, penetrando a fondo nella massa gelatinosa. Alla fine, qualcosa si era spezzato in lui. Una componente all’interno della testa, o forse la sua sanità mentale. oppure entrambe. Aveva urlato fino a lacerarsi le corde vocali. Poi, un velo nero era calato sui suoi occhi, ponendo fine alle sue sofferenze con una dolcezza e una delicatezza mai sperimentate prima di allora.
Ridestatosi, si era ritrovato nei suoi alloggi, nella fortezza dei Lavinia. Ad assisterlo v’erano stati alcuni servi. Appena aveva riacquistato coscienza di se, il primo impulso provato era stato quello di uccidere, mutilare e distruggere. Aveva cercato di controllarsi, ma aveva scoperto come resistere a un simile istinto gli procurasse dolore, fisico e mentale. Si era lasciato andare con selvaggio abbandono.
Aveva massacrato i dieci attoniti schiavi che si trovavano nella stanza, li aveva eliminati a mani nude, facendoli a pezzi, sbranandoli con unghie e denti. Una bestia antropofaga. Non avevano opposto resistenza, non avevano tentato la fuga, si erano limitati ad osservarlo mentre compiva la carneficina. Non avrebbero potuto fermarlo.
Terminata la strage, ritrovandosi lordo di sangue da capo a piedi, si era gettato al suolo, sfinito. La nebbia rossa che aveva avvolto i suoi occhi era svanita, lasciando posto ad una confortevole sensazione di vuoto. Non ricordava il suo nome, e i pochi ricordi che conservava gli parevano frammentari, spezzati. Tuttavia, rammentava integre tutte le tecniche di combattimento apprese, come se fossero naturali, congenite. Aveva ululato di frustrazione, temendo di essere diventato pazzo.
In quel momento, il Principe Lavinia e alcune guardie avevano fatto il loro ingresso nella stanza. Per nulla turbato dal massacro e dal caos circostante, il nobile si era inginocchiato accanto a lui, appoggiandogli una mano sulla spalla come quando un padre affettuoso si rivolge al figlio amato. Con voce calma e rassicurante, gli aveva spiegato come fosse tutto a posto, che non ci fosse nulla di male in ciò che aveva appena fatto o per come si sentisse. Si trattava di un normale effetto collaterale dell’operazione subita. Gli avrebbe procurato dei farmaci capaci di fargli controllare i suoi istinti omicidi fuori dai combattimenti.
Le parole del Principe erano riuscite a calmarlo, e quando gli aveva chiesto come si chiamasse, il nobile gli aveva sussurrato all’orecchio il suo nuovo nome, quello che avrebbe portato sino al giorno della sua morte. Lavinia, dopo essersi scostato leggermente e averlo osservato con fare affettuoso, gli aveva chiesto cosa desiderasse di più in quel momento. Aveva risposto subito, sicuro e deciso, senza alcuna esitazione: uccidere.
Non era più un uomo, lo avevano trasformato in un’arma, uno strumento di morte, un dispensatore di dolore. Nell’oscurità della galleria cercò di contare quanti incontri avesse disputato e vinto, e quanti individui avesse brutalmente trucidato dopo l’operazione. Non ricordava. Il lusso, la fama, il riconoscimento. Cose inutili rispetto al suo unico, vero scopo, l’omicidio. Nulla lo esaltava quanto il sangue che zampillava da un’orribile ferita, o il lamento di un’anima disperata, la cui unica sfortuna era stata quella di incrociare il suo cammino. Le asce gemelle non erano più oggetti, bensì estensioni della sua volontà e del suo corpo. Erano un tutt’uno, uno psicopatico sinolo di furia.
I calmanti avevano cessato di fare effetto. Il nero si era tramutato in rosso, caldo e pulsante come un cuore Doveva uccidere, doveva affondare le lame nella carne di qualcuno, doveva recidere arti e stroncare vite, altrimenti si sarebbe fatto a pezzi da solo in preda alla follia omicida che pervadeva ogni fibra del suo essere. Aveva fame e sete di massacro, voleva divorare carne fresca, fumante e palpitante.
La porte della galleria si spalancarono, la luce proveniente dall’esterno lo abbacinò per qualche istante. Un urlo di pura e vermiglia pazzia risuonò nella sua mente mutila e lobotomizzata, e lui gli diede voce prorompendo in un ruggito che non aveva nulla di umano, gli occhi iniettati di sangue, le vene del collo e i tendini tesi e ingrossati come cavi d’acciaio. Era il ringhio di un abominevole predatore primordiale in cerca di corpi caldi in cui affondare le zanne.
“MYRMIDOR! MYRMIDOR! MYRMIDOR!” tuonò la folla al suo ingresso nell’arena, osannando il suo nuovo nome.
Il gladiatore non vi fece caso. Si lanciò ululando verso le indistinte figure che gli correvano incontro attraverso il campo di battaglia, le sue prossime vittime. Avrebbe assicurato a tutti quegli anonimi spettatori senza volto una terrificante mattanza degna della sua fama.
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