Tucidide, Storie, libro II, 48.3-49.6
Io invece dirò quale fu e in base a quali sintomi uno, dopo un'attenta osservazione, sarebbe massimamente in grado di riconoscerla sapendone in precedenza qualche cosa, casomai scoppiasse una seconda volta, quei sintomi mostrerò, poiché io stesso ne fui affetto e vidi altri malati. 49) Quell'anno, come era riconosciuto da tutti, era stato, in misura eccezionale, immune da altre malattie: ma se anche uno aveva contratto in precedenza (prima dell'arrivo della peste) una qualche malattia, in ogni caso essa andava a confluire in questa.
Gli altri invece senza alcuna motivazione visibile, ma d'improvviso mentre erano sani, inizialmente erano presi da vampate di calore alla testa, arrossamenti degli occhi e infiammazioni.
E le parti interne, sia la faringe che la gola subito erano sanguinanti e emettevano un alito strano e maleodorante. E in seguito dopo questi sintomi sopraggiungevano starnuti e raucedine e in non molto tempo la malattia scendeva al petto con uno spasmo violento e ogni volta che si stabiliva nello stomaco, lo rivolgeva, e sopraggiungevano svuotamenti di bile di tutti quei generi che sono stati catalogati dai medici, e questi avvenivano tra grandi sofferenze.
Ai più capitavano vani sforzi di vomito che generavano, all'interno, violenti convulsioni, le quali, in alcuni, cessavano subito dopo questi, in altri invece anche dopo molto tempo.
Il corpo, all'esterno, per chi lo toccava non era troppo caldo, né era pallido, ma rossastro, livido e fiorito di piccole pustole e di ulcere; ma le parti interne bruciavano così tanto da non riuscire a sopportare le vesti, nemmeno quelle più leggere, ne altro fuorché l'essere nudi, e si sarebbero gettati con sommo piacere nell'acqua fredda.
E molti dei malati trascurati lo fecero davvero gettandosi nei pozzi, oppressi da una sete inestinguibile, ma il bere di più o di meno non comportava alcuna differenza.
In questo breve estratto del suo capolavoro, le Storie, lo storiografo ateniese Tucidide descrive, quasi con fascino perverso, gli effetti visibili del morbo della peste che colpì Atene nel 430/429 a.C. Ne evidenzia i sintomi con precisione ippocratea, i momenti del contagio, ricordando che lui stesso cadde ammalato ma guarì, ma evita di addentrarsi in ipotesi sulle cause del malattia, non pertinenti alla sua opera, e si limita ad augurare che questo suo affresco sull’argomento possa aiutare in futuro a riconoscere più tempestivamente l’epidemia. Tucidide coglie però l’aspetto più distruttivo del morbo, il cui danno più grave non è quello di seminare morte, ma quello di stravolgere nel profondo i legami familiari, di amicizia e di vicinanza, di disgregare le consuetudini religiose e le norme civili. In coerenza con lo stile quasi scientifico che Tucidide applica nell’analisi e nella ricerca delle fonti, lo scrittore ateniese non esamina minimamente le cause dell’epidemia. Perché? Il motivo va ricercato sin dalle origini della letteratura occidentale, poiché la colpa della pestilenza è sempre stata addossata alle divinità. Ciò avrebbe cozzato con la scientificità del suo stile, poiché la consueta origine divina non sarebbe stata dimostrabile storicamente, e anche poiché, essendo stato lui stesso contagiato, non vedeva nella divinità il responsabile né della sua malattia né della sua miracolosa guarigione.
Perché le cause della peste vanno ricercate sin dalle origini della letteratura occidentale? La pestilenza è sempre stata vista come castigo per l’uomo, effetto di una sua mancanza verso il divino che, irritato, lo punisce con il massimo della pena. Così accade nel I libro dell’Iliade, quando l’ira di Apollo viene provocata della mancata restituzione di Criseide al padre. Stessa concezione la troviamo nella “tragedia perfetta”, secondo Aristotele, capolavoro di Sofocle: l’”Edipo Re”. Qui l’epidemia inflitta alla città di Tebe è effetto del fatto che il capoluogo beotico ha accolto il contaminato Edipo.
“la città, come tu stesso vedi, è molto scossa come una nave in tempesta e non può risollevare il capo dai gorghi della burrasca: si spegne nei germi che chiudono i frutti della terra, si spegne nelle mandre dei buoi e nei parti infecondi delle donne. E la dea della febbre, peste maligna, è piombata sulla città e la tormenta. Si svuotano le case dei Tebani e il nero Ades si fa ricco di pianti e singhiozzi.”
vv 25-30, Edipo Re, Sofocle
Nell’antichità, dunque, la causa della peste è quasi sempre attribuita alla divinità. In Diodoro Siculo la peste è punizione agli atti sacrileghi, volti a profanare le tombe, dell’esercito cartaginese che assediava Agrigento nel 406 a.C; in Virgilio, su modello omerico, la pestilenza è solo accennata, ma anche qui è una mancanza umana, in questo caso Enea e compagni che si fermano a Creta piuttosto di proseguire per l’Italia (Eneide 3, 137-142), che genera l’ira di Apollo e la sua conseguente punizione; Virgilio è modello a sua volta per Ovidio, Seneca e Lucano. Ma, è QUASI sempre attribuita, come dicevo in precedenza. Chi sono le mosche bianche che non attribuiscono causa divina alla devastante malattia? Uno è Tucidide, guarito dal male, che non parlandone sottende il fatto che esclude la responsabilità di qualche dio. L’altro, permettetemi un “ovviamente”, perché quando si parla di essere precursori di idee e congetture che solo secoli dopo si rivelano esatte lui è sempre presente, è Lucrezio. Nella parte finale del IV libro del suo capolavoro, il “De rerum natura”, sul solco tucidideo descrive la peste di Atene e, rifacendosi alla concezione epicurea, sostiene che le malattie e le pestilenze sono dovute a cause naturali. Dunque, per Epicuro e Lucrezio, è vana la paura che di esse hanno gli uomini, che vedono in esse manifestazioni dell’ira divina.
La peste ha esercitato, come abbiamo visto, un notevole fascino per gli scrittori nell’antichità, probabilmente perché era un nemico invisibile, nemico sempre in agguato, di provenienza ignota e contro il quale non esisteva rimedio. Ecco perché, com’era tipico per gli eventi inspiegabili, vedere negli dei la causa ma anche i possibili debellatori e salvatori dalla pestilenza. Per tutti tranne che per due, lucidi osservatori.
Davide Zennaro
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