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"Serenissimi incontri": La condizione della donna dall’Antichità alla Repubblica di Venezia.

Immagine del redattore: Carlo MarasciuloCarlo Marasciulo

Aggiornamento: 6 dic 2019

Il ciclo di conferenze di “Storia e cultura veneta”, promosso dal Comune di Treviso, si arricchisce di un ulteriore incontro parallelo fuori programma sempre riguardante tematiche inerenti il passato del nostro territorio nella giornata di sabato 23 marzo 2018, conferenza tenutasi nello splendido salone di Palazzo dei Trecento. Gli ospiti stavolta gentilmente invitati dall’Assessore per le Politiche per lo Sport e per il Benessere Psico-fisico della Persona Silvia Nizzetto sono stati il Professor Marco Zanetto, docente di storia, e il Professor Giovanni Zordan, violinista.


Tema centrale dell’appuntamento è quello legato alle libertà accordate dalla Serenissima ai cittadini di ambo i sessi, in particolar modo alle donne, le quali, durante l’età moderna, rispetto alle loro contemporanee vissute nel medesimo periodo, pare possedessero una maggiore indipendenza sociale ed economica.

La panoramica eseguita su un simile argomento abbraccia un arco temporale vastissimo, partendo dall’epoca preromana, durante la quale il popolo dei veneti sviluppò una netta predisposizione per l’arte del commercio, collaborando fra loro mediante una federazione che comprendeva quasi cinquanta tribù e stringendo relazioni economiche con i popoli vicini, non troppo diversamente da quanto fecero i Fenici a loro tempo, denotando perciò lo spirito mercantile che avrebbe contraddistinti i loro discendenti veneziani più di un millennio dopo. Secondo le fonti, le donne venete, al pari degli uomini, avevano diritto ad amministrare i propri beni disponendone come meglio credevano.


L’assoggettamento al potere di Roma mutò le cose unicamente sul breve periodo, dato che è bene sottolineare come la donna fosse relegata alla propria dimora e dovesse incarnare virtù di purezza e integrità morale solo durante la primissima età repubblicana, ovvero sino all’espansione latina verso oriente. Da quel momento in poi, infatti, fanciulle e matrone saranno protagoniste di quella che può essere considerata una vera rivoluzione emancipatrice nei costumi sociali, economici e sessuali. La donna romana, dalla Tarda Repubblica sino all’alba del Tardo Antico, è una figura disinibita, curiosa, influente anche dal punto di vista politico, a tratti giustamente feroce nella sua volontà di affermare il proprio Sé femminile in un mondo controllato dal patriarcato maschile. Non si intende qui ovviamente il patriarcato misogino e machista di stampo ottocentesco imperniato sulla pseudo – morale cristiana perbenista che disprezza la donna e la contempla come tale unicamente nell’ambito domestico nei triti ruoli di angelo del focolare e genitrice, bensì del patriarcato politico dei patres, i padri o anziani, ovvero gli uomini che per dignità o accesso detenevano il potere amministrativo dell’Urbe e dei suoi domini.

Va ricordato che si sta ragionando in un’ottica che noi moderni difficilmente riusciamo a comprendere se non calati nel mondo della classicità romana. Personalità quali Lesbo/Clodia, le imperatrici delle varie famiglie imperiali, come quelle dei Giulio – Claudi o dei Severi, e Zenobia di Palmira (sono solo esempi, se ne potrebbero citare altre migliaia) erano spesso le reali eminenze grigie celate dietro sconvolgimenti politici, intrighi e congiure che mutarono radicalmente le vicende della storia di Roma. Le donne più emancipate erano quelle appartenente alle classi più elevate della società, ma anche presso il semplice popolo esse godevano di una sviluppata indipendenza rispetto l’universo maschile con cui avevano a che fare, come testimoniato dalle figure femminili di basso rango descritte da Apuleio nell’ Asino d’Oro. Una simile condotta sarebbe di lì a poco stata spazzata via con l’affermasi del cristianesimo negli ultimi secoli dell’Impero, dove alla donna venne affiancata l’immagine della Vergine, perciò casta, riservata, pura e integra


Da questo punto di vista, perciò, si deduce come Venezia non abbia inventato l’emancipazione femminile in Italia e in Europa durante l’età moderna, non le si può certo attribuire un simile, importante primato. Tuttavia, forte di quel solido legame con la tradizione più antica e con la cultura latina, che sentiva vicina e propria, legittimante come già detto altrove, si può dire che la Serenissima riplasmò la condizione della donna creando un modello sicuramente più libero e svincolato rispetto a quello dominane nel resto del continente, benché risultasse pur sempre accettabile per l’epoca.

Si spiegano perciò determinate decisioni intraprese dal governo veneziano, sempre attento al benessere dei cittadini per incrementare consenso e di conseguenza profitto, quali quella riguardante l’istituzione della Repromissa, ovvero la possibilità, da parte della donna, di disporre di una cospicua parte del patrimonio senza il consenso del marito, contrario alla dos, ovvero il patrimonio unicamente gestito dall’uomo; e la derubricazione, per decisione del Consiglio dei Dieci, l’organo che si occupava della sicurezza interna della Serenissima, degli atti amorosi non consoni, legati alla libertà sessuale della coppia e a questioni inerenti lasciti testamentari. Tutto questo unito ad un programma di istruzione basilare elargito a maschie e femmine al fine di garantire un’acculturazione minima che potesse aiutare i veneziani una volta fatto il loro ingresso in quello che era allora era considerato mondo del lavoro, un’arguzia rientrante nella consueta ottica commerciale volta all’accrescimento finanziario della nazione. Nulla era perciò lasciato al caso, l’obbiettivo economico era possibile solo tramite l’attuazione di un welfare ante litteram promosso da un’oligarchia illuminata.


Si tratta solo di due tasselli che compongono un mosaico molto più ampio, un’opera che traccia il percorso dell’emancipazione femminile nel territorio veneto dall’antichità sino alla contemporaneità, un percorso che in parte spiega perché, una volta caduta la Serenissima sotto l’avanzata napoleonica, le donne si rifiutassero caparbiamente di accettare i nuovi ed estranei dettami della Rivoluzione Francese riguardo la loro condizione, costituendo una problematica non indifferente per gli occupanti e dimostrando un fiero, seppur vano, attaccamento a quelle istituzioni che ne avevano garantito la libertà d’azione e pensiero.




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