Plinio, Naturales Historia, XVIII, 3-4
3 nos et sagittas tinguimus ac ferro ipsi nocentius aliquid damus, nos et flumina inficimus et rerum naturae elementa, ipsumque quo vivitur in perniciem vertimus. neque est, ut putemus ignorari ea ab animalibus; quae praepararent contra serpentium dimicationes, quae post proelium ad medendum excogitarent, indicavimus. nec ab ullo praeter hominem veneno pugnatur alieno.
4 fateamur ergo culpam ne iis quidem, quae nascuntur, contenti; etenim quanto plura eorum genera humana manu fiunt! quid? non et homines quidem ut venena nascuntur?
(3)Noi intingiamo anche le frecce e al ferro stesso aggiungiamo qualcosa di più nocivo, noi danneggiamo anche i fiumi e gli elementi della natura, e trasformiamo in rovina la stessa cosa per cui si vive. E non è possibile che pensiamo che queste cose siano ignorate dagli animali. Quali sistemi preparino contro l'assalto dei serpenti, quali ne escogitano per rimediare dopo la lotta, l'abbiamo indicato. E da parte di nessuno eccetto l'uomo si combatte con il veleno altrui. (4) Confessiamo dunque la colpa neppure contenti, di quei veleni che si producono, anzi quanti più tipi di essi ne fanno con la mano dell'uomo! E che? Anche alcuni uomini non nascono come i veleni?
Nella riflessione di Plinio riguardo alla natura, a cui dedica una mastodontica opera chiamata "Naturales Historia", si inserisce questo passo, a mio modo di vedere estremamente interessante per il suo carattere apparentemente anacronistico. Se nel 2019 vi è ancora qualche negazionista che sostiene che l'uomo non ha alcun impatto sull'ambiente e che gli sconvolgimenti climatici e paesaggistici siano inseriti nel normale fruire delle cose, in un fatalismo ciclico, ecco che nel 77 d.C (!!!) un comasco, uomo di straordinaria intelligenza e umanità, affronta per primo la questione. Probabilmente il più grande scienziato, anche se con limiti di metodo di ricerca piuttosto evidenti, della romanità, se non dell'intera antichità, Plinio dimostra il suo amore spassionato per la ricerca scientifica fino letteralmente sul letto di morte: muore, infatti, sorpreso nella notte, a causa delle esalazioni soffocanti prodotte dalla devastante eruzione del Vesuvio del 79 d.C, come ci informa il nipote Plinio il Giovane in una lettera indirizzata a Tacito. Egli, mentre era capo della fotta a Capo Miseno, si reca sul posto per recare aiuto alle popolazioni colpite dal cataclisma e per assecondare la propria sete di conoscenza, conoscendo da vicino il fenomeno eruttivo. In questo modo, può essere considerato il primo martire della ricerca scientifica.
Lo studio della natura di Plinio è, per cosi dire, a tutto tondo, nel senso che egli si sforza di descrivere nelle Naturales Historia, tutti i fenomeni di cui è in grado di riferire, motivo per cui l'opera si compone di ben 37 libri. Ritengo realmente Plinio un precursore, un uomo capace di rendersi conto di problematiche di cui un romano di I sec d.C non dovrebbe curarsi. Un posto notevole della sua produzione, infatti, lo ha l'acqua, il bene primario per l'uomo, che ne ricerca l'esistenza ovunque con grande determinazione.
Aspetto che viene ritenuto un limite da qualcuno, ma da me un pregio, è l'idea di Plinio che l'uomo nella conoscenza e nello sfruttamento deve porsi limiti ben precisi; in altri termini non deve andare al di là di quelle barriere che la natura stessa ha fissato; se l'uomo intende sfidare queste barriere, deve sapere che ciò si potrà rivolgere drammaticamente contro di sè.
Egli ha il merito, secondo me, di richiamare l’attenzione sugli effetti di deformazione ambientale implicati dal lavoro umano. Ciò lo conduce ad una attenta ricognizione dei mutamenti che, a partire dalla tarda età repubblicana, e poi in età giulio-claudia, furono introdotti nell’ambiente italico: frequenti drenaggi delle acque, massicci disboscamenti, alterazioni profonde della geomorfologia del terreno, introdotte ora a beneficio della privata luxuria, ora in nome della pubblica utilità: lavori che non si arrestavano, talora, neppure di fronte alla sacralità di luoghi legati a remotissime tradizioni religiose, quale il disboscamento del lago d’Averno in area cumana, operato da M. Vipsanio Agrippa. Siamo sicuri che questo tipo di analisi sia un limite? Un limite rendersi conto che l'intervento dell'uomo deve essere vincolato e circoscritto da regole se non altro di buon senso? Un comasco del I sec d.C si era posto il problema. Con il senno di poi, questo passo avrebbe dovuto avere più successo e considerazione, noi ce ne rendiamo conto sulla nostra pelle.
Davide Zennaro
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